Sono passati 24 anni dal 17 agosto 1993, giorno in cui Giuseppe D’Urso rese grande l’atletica leggera siciliana con una strepitosa medaglia d’argento nella finale mondiale degli 800 metri piani, a Stoccarda. Il mezzofondista catanese giunse secondo con il tempo di 1’44’’71, piegandosi soltanto al keniano Paul Ruto ma riuscendo a tenere dietro il favorito Billy Konchellah. L’azzurro iniziò la gara al quinto posto, alle spalle degli inglesi Curtis Robb e Tom McKean, del canadese Freddie Williams e del campione olimpico William Tanui. La rimonta dell’atleta etneo si concretizzò negli ultimi 400 metri: partendo dall’esterno e saltando uno a uno gli avversari, nel rettilineo finale D’Urso provò a riprendere anche la lepre Ruto, riuscendo a contenere il ritorno di Konchellah.
«Ricordo il piacere di aver fatto qualcosa di importante – dichiara Giuseppe D’Urso a MeridioNews – quel risultato non era neanche immaginabile nei miei piani: ero uno dei finalisti, ma con tre keniani in gara era impensabile che un europeo potesse farcela. Ma negli ultimi metri – prosegue – ero ormai sicuro di portare a casa una medaglia. Non avevo idea di cosa facesse Konchellah dietro di me, mi preoccupavo più di mantenere il secondo posto che di andare a prendere Ruto: ci fosse stata qualche decina di metri in più – ricorda – avrei probabilmente acciuffato anche l’oro». I finali in crescendo sono sempre stati un marchio di fabbrica di D’Urso: «Il segreto – spiega l’atleta – è stato di avere sempre avuto un differenziale tra il primo e il secondo giro praticamente nullo. Lavoravo molto in tal senso con il mio allenatore, il professore Pietro Collura: riuscivo a tenere lo stesso ritmo per tutta la gara, elemento spesso decisivo nell’economia di una corsa».
L’atletica leggera non è più il mondo di Giuseppe D’Urso da anni, ma il suo parere sulla nazionale azzurra è interessante, soprattutto dopo dopo l’unica medaglia nella casella dei mondiali di Londra: «Lavoro come fisioterapista per il gruppo sportivo Fiamme Azzurre – dice il mezzofondista – ho anche seguito la nazionale di ciclismo alle Olimpiadi di Rio 2016. L’atletica è stata una parte piacevole della mia vita, ma tutto ha un inizio e una fine: le priorità con il tempo cambiano. Pur non conoscendo a fondo le vicende della nazionale azzurra, credo che ai miei tempi i tecnici e gli atleti di periferia venissero assecondati maggiormente: c’erano più risorse economiche e si investiva di più. Ho visto nazioni europee – va avanti – che in passato non prendevano una medaglia fare passi da gigante, Polonia e Inghilterra in primis».
Secondo D’Urso, le condizioni delle strutture sportive è un problema relativo. «C’è – argomenta – una carenza di talenti a livello nazionale, legata anche al dato che sempre meno giovani si impegnano in questo sport. Il fatto che non esistano più i Giochi della Gioventù è un errore: si dovrebbe ripartire dalla scuola, investendo sui ragazzi e stimolandoli a fare atletica».
Sulla stessa lunghezza d’onda Pietro Collura, ex professore di educazione fisica, scopritore e allenatore di D’Urso: «Cambiare continuamente tecnici, quando le cose vanno male, non serve a molto. Ciò che determina la forza di una nazione – ribadisce Collura – è la base. Dopo aver tolto i Giochi della Gioventù nessuno viene più al campo ad allenarsi: manca il travaso dalle scuole ai gruppi sportivi».
Il ricordo di Collura è pieno di aneddoti piacevoli: «Ho conosciuto D’Urso durante alcune selezioni per i campionati studenteschi, da lì l’ho allenato fino al ’97 con prestazioni sempre in crescendo. Il 1993, anno dei Mondiali di Stoccarda, fu tribolato. In maggio – aggiunge l’allenatore – D’Urso si infortunò mentre correva in Trentino: da lì ad agosto c’era troppo poco tempo per riprendere la condizione». Collura lo ricorda come l’impegno più gravoso della sua vita.
«Due mesi di grande difficoltà – sostiene – per programmare ciò che si doveva fare e quello che si era perso per strada. Non sono mancati i contrasti con la federazione, legati al rifiuto di partecipare a un raduno della nazionale: tutto spazzato via dal grande risultato di Stoccarda». Le qualità di D’Urso come uomo e atleta erano indiscutibili: «Aveva una grande elasticità di corsa, sembrava un keniano. Era – afferma inoltre – un atleta dotato e molto volenteroso: si è sempre allenato con costanza, 350 giorni l’anno, senza mai tralasciare i particolari». Elementi fondamentali per il successo di un sportivo, che l’esperto allenatore non trova nei ragazzi di oggi: «Vedo che i giovani non vanno a correre e ad allenarsi giorno per giorno: mancano la forza e l’impegno di una volta».
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