Ardita su mafia e politica, da Cuffaro ai beni confiscati «Cosa Nostra può costituire associazioni antimafia»

Metà della sua vita l’ha dedicata a combattere Cosa Nostra. Sebastiano Ardita è entrato in magistratura quando aveva 25 anni, ora ne ha 51. Lo ha fatto nella Direzione distrettuale antimafia di Catania, e adesso in quella di Messina, nell’ufficio che, tra le altre cose, deve fare chiarezza sull’attentato al presidente del parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci. Ma la battaglia del magistrato etneo è passata anche dall’impegno e dalla ricerca per migliorare la legislazione antimafia. Scelto da Nicola Gratteri tra i 15 membri che, ormai tre anni fa, hanno fatto parte di una speciale commissione col compito di elaborare proposte normative che andassero in quella strada. Avvocati, docenti e magistrati hanno lavorato gratuitamente per cinque mesi. Ne è venuto fuori un documento che propone la modifica di 150 articoli tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento giudiziario. E tra questi c’era anche una riforma dell’Agenzia dei beni confiscati. Ma tutto è rimasto nei cassetti del Parlamento. 

Dott. Ardita, se quella proposta fosse diventata legge avrebbe potuto evitare gli scandali che negli ultimi mesi hanno coinvolto uomini e donne chiamati a gestire i beni confiscati? Cosa va cambiato per rendere efficiente e trasparente il sistema?

«Occorrerebbe osservare criteri molto rigidi: istituzione di albi, rotazioni negli incarichi, incompatibilità di ruoli, tetti ai compensi professionali. E questo perché se un bene o un’azienda vengono sottratti a chi li detiene ed affidati allo Stato, essi devono essere gestiti con il massimo scrupolo. Non si devono perdere complessi aziendali nei quali lavorano persone estranee ai delitti e soprattutto nessuno deve potersi arricchire gestendo i beni sequestrati alla mafia. Altrimenti è molto meglio metterli all’asta».

Nel suo nuovo libro, Giustizialisti, scritto insieme a Piercamillo Davigo (presidente dell’Associazione nazionale magistrati), si sofferma molto sul rapporto tra politica e magistratura. A proposito di questo, l’ex governatore Cuffaro dopo la condanna è tornato a essere voce influente della politica siciliana. Come valuta questo scenario?

«Le valutazioni dei quadri politici non spettano ai magistrati, ma il giudizio spetta semmai agli elettori. Quello che c’è da augurarsi è che i partiti non si facciano orientare nelle scelte sulla giustizia da chi ha subito condanne penali, questo mi sembra il minimo».

Rimanendo sugli ex presidenti di Regione, la condanna a Raffaele Lombardo solo per voto di scambio è una riprova, secondo lei, della difficoltà di dimostrare il concorso esterno alla mafia? In questo senso viene naturale il confronto con il processo a carico di Cuffaro e la scelta della Procura di Palermo di contestare il favoreggiamento. 

«I processi per concorso esterno sono difficili ma indispensabili. Per giungere alla condanna in base ai parametri elaborati dalla Cassazione, occorre dimostrare che l’agevolazione alla mafia si è spinta oltre una certa soglia, che è poi quella da cui dipende la configurabilità del reato. È chiaro perciò che per i reati fine, come appunto il favoreggiamento o il voto di scambio, la prova può risultare più agevole. Il problema è che il concorso esterno purtroppo è il reato di mafia dei nostri giorni. Oggi un vero contrasto alla mafia può condursi solo individuando coloro che forniscono supporto non organico ma indispensabile per assicurare condizioni di inquinamento della economia, della politica e a volte anche delle istituzioni. Tornando all’argomento di prima, occorrerebbe che questo inquinamento venisse risolto ben prima di infrangere la soglia della responsabilità penale».

La commissione nazionale antimafia ha recentemente sequestrato gli elenchi delle logge massoniche di Sicilia e Calabria. Sulla base della sua esperienza investigativa, è un rapporto che è esistito e continua a esistere?

«Il rapporto tra massoneria e mafia venne certificato sin dai tempi di Calderone, il pentito che spiegò a Falcone come Cosa Nostra aveva dato disposizione ai propri responsabili di essere presenti nelle logge massoniche presenti in tutte le province della Sicilia. Analoghi se non più forti legami tra ‘ndangheta e massoneria si sono registrati in Calabria. È chiaro che il trasformismo che connota i nostri giorni indurrà Cosa Nostra a maggiore cautela e magari la “mafia che non spara” tenterà di infiltrare altre associazioni».

E quali?

«Non c’è da stupirsi se provasse ad entrare occultamente nelle associazioni che si battono per la legalità e contro la mafia o a costituirne in proprio».

Che mafia è quella dei Nebrodi, di cui si è tornati a parlare? Come si sta riorganizzando dopo gli attacchi subiti?

«È una mafia rurale e dunque sostanzialmente primordiale e spietata. Ricordiamoci che anche i Corleonesi avevano un’analoga origine. Solo che oggi se vuoi operare dentro Cosa Nostra, devi conoscere se non proprio il codice degli appalti quantomeno qualche nozione di contabilità che ti consenta di ottenere i contributi comunitari. E dunque così anche loro si attrezzano».

Lei è stato anche direttore dell’Ufficio detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Così come spesso per gli affiliati alle mafie l’esperienza in carcere rischia di peggiorare la situazione, negli ultimi anni allo stesso modo si aggiunge il tema della radicalizzazione di possibili terroristi. Come si affrontano?

«Innanzitutto occorre tenere distinti i detenuti mafiosi dagli altri che non essendo affiliati potrebbero con più facilità rispondere alla proposta rieducativa. Con i circuiti penitenziari differenziati e collegando sempre più le scelte penitenziarie alle esigenze di prevenzione penale si può impedire il proselitismo. Amministrazione penitenziaria e procure si devono parlare sempre di più».

Nel suo ultimo libro sostiene che chiudere gli Ospedali psichiatrici giudiziari è stato uno sbaglio. Perché?

«Ritengo che la riforma faccia un bilanciamento inadeguato tra i beni potenzialmente in conflitto: da un lato la dignità e le condizioni di umanità che devono essere garantite per i “rei folli” e dall’altra la tutela dei cittadini innocenti o degli stessi operatori che possono essere esposti a gravi rischi per la vita e l’incolumità. L’encomiabile intento di migliorare le condizioni di vita degli internati poteva e doveva essere essere realizzato attraverso la dimissione di coloro che non sono realmente pericolosi e il rafforzamento dei supporti assistenziali all’interno degli OPG, che andavano così concepiti come luoghi di ospitalità delle persone pericolose e disabili di mente. L’OPG era una formula valida di approccio al problema ed è stato abolito da una riforma sostanzialmente ideologica, non adeguatamente sostenuta sul piano finanziario e che mette a rischio l’incolumità dei cittadini. Dal momento che sono un estimatore di Basaglia, cui si deve la legge che abolì i manicomi, mi chiedo se chi ha voluto questa legge si è mai domandato perché Basaglia non abolì anche gli OPG. In questo interrogativo retorico sta anche la risposta più efficace alla sua domanda».  

Salvo Catalano

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