C’è una cosa che, girando per i padiglioni della Biennale di Architettura a Venezia, continua a tornare in mente, ovvero il perché una città patrimonio dell’umanità, da un punto di vista architettonico intoccabile, dove è pressoché impossibile cambiare anche gli infissi di balconi e finestre organizzi una mostra sull’architettura contemporanea.
Riunire progetti e idee che proiettano il mondo nel futuro in una città che nel suo nucleo fondamentale non potrà mai pensare di accogliere, mi è sembrata come una sorta di volontà di compensare l’attuale impossibilità del perpetuarsi della secolare stratificazione architettonica.
Il tema scelto dalla curatrice Kazuyo Sejima è “People meet in architecture”, che delinea una volontà sempre maggiore di ristabilire il rapporto tra l’architettura e le persone che la vivono. Si, perché può sembrare paradossale ma negli ultimi dieci, quindici anni si è creata una sempre più estesa discrepanza tra l’architettura e le sue finalità sociali, ripiegandosi troppo spesso in una certa autoreferenzialità e compiacenza creando strutture sempre più ardite, spettacolari e scenografiche a scapito della funzionalità e sostenibilità.
Questo è stato anche il tema del dibattito tra il curatore della mostra del 2004 Kurt W. Forster e il professor Louis Fernàndez-Galiano: proprio quest’ultimo pone l’accento sugli eccessi del decostruttivismo che ha fatto della catastrofe l’archetipo delle forme architettoniche contemporanee, basti pensare al celebre Guggenheim di Bilbao o il museo ebraico di Berlino che richiamano rispettivamente una nave naufragata ed un treno deragliato.
Un altro punto su cui si sofferma il professor Galiano è la nascita dei cosiddetti “archistar” che vengono annoverati tra le persone più influenti al mondo da varie riviste dove spesso appaiono in copertina alla stregua delle popstar, Zaha Hadid, Richard Meier o Frank O. Gehry solo per citarne alcuni. La sua critica investe il loro eccessivo protagonismo che rende la figura dell’architetto completamente distante dalla vita reale, fatto che spesso si rispecchia nelle loro opere, magnificenti ma non sempre progettate sui reali bisogni delle persone; il professore ricorda altresì che la loro è una professione di servizio, di pubblica utilità.
Da queste premesse è sembrato quasi logico che il leone d’oro quest’anno fosse assegnato al Regno del Barhain, un progetto che esula dalle architetture avveniristiche cui la regione del golfo Persico negli ultimi anni ci ha abituato, ma che bensì propone un progetto di conservazione che nasce dall’urgenza di salvaguardare l’antico rapporto tra la popolazione ed il mare. A causa dell’espansione urbana incontrollata e dei vorticosi cambiamenti economici, le coste ed il mare del golfo stanno scomparendo. Mare che è stato il vero “landmark” del Barhain adesso sostituito anche nell’immaginario collettivo dagli edifici moderni, che, a detta del ministro della cultura Mohammed Al Khalifa, “Sebbene siano necessari per il loro ruolo, sono molto lontani dalla nostra cultura, dal nostro mare”.
I visitatori hanno avuto la possibilità di camminare, sedersi e sdraiarsi al riparo in questi capanni costruiti da “architetti anonimi” che rappresentano un luogo dalla fortissima caratterizzazione sociale ed aggregativa; sono, infatti, il ritrovo dei pescatori che dopo il lavoro stanno insieme per condividere un tè. Nei monitor passano le interviste di cittadini che il mare l’hanno sempre avuto così vicino che quando c’era l’alta marea dovevano fare i conti con le inondazioni ;che pescava o raccoglieva le perle. Adesso per raggiungere il mare bisogna usare l’auto.
Dei tantissimi padiglioni nazionali della Biennale, particolarmente degni di nota quelli di Olanda e Finlandia che, a parere di chi scrive, fotografano al meglio i percorsi che l’architettura contemporanea potrebbe seguire. Nel primo, dal titolo paradigmatico “Vacant NL”, si è realizzato un censimento dell’enorme numero di edifici dismessi che, se recuperati, eviterebbero di consumare altro cemento e spazio; insomma alla costruzione ex novo si è preferito un recupero delle preesistenze. Quello finlandese invece è dedicato agli edifici scolastici, che per chi ha studiato nelle scuole italiane sembra quasi fantascienza. Oltre alla cura dei materiali, tutte le strutture sono concepite in maniera che ci sia il piacere di andare e vivere la scuola. Sembra scontato che puntare sull’edilizia scolastica significhi investire sul futuro della nazione, ma è noto che non tutti la pensano così.
E l’Italia? La crisi dell’architettura italiana in questi ultimi decenni è tale che ha spinto il curatore Luca Molinari a chiamare il padiglione AILATI che è la parola Italia allo specchio. Oltre ad indicare la “lateralità” se non marginalità italiana dai centri del dibattito internazionale, esprime tuttavia “la necessità di produrre pensiero e progetti autonomi, diversi, che rompano con le prospettive tradizionali”. L’intento del padiglione italiano è quello di dare un segnale forte ed una risposta a questi anni che hanno visto egemone edilizia a basso livello che ha compromesso forse irreversibilmente il territorio ed ha favorito la criminalità che col cemento ha ingigantito i suoi profitti.
Sezioni di AILATI sono: Amnesia nel presente: 1990-2010, Laboratorio Italia, Rumori di fondo e Italia 2050. Lo scopo della prima sezione è quello di rileggere i vent’anni appena trascorsi in maniera critica per “decifrare questo presente dai confini irrequieti evitando pericolose amnesie” riflessioni che vanno dall’architettura come discorso politico all’emergenza paesaggio passando per la provincia come officina d’idee. Nella seconda sezione viene evidenziato come costruire architettura di qualità in Italia è impresa quasi impossibile e mettere sotto i riflettori alcune di queste opere è un atto di “resistenza” al consumo indiscriminato di territorio, quest’ultimo rappresentato come un rumore di fondo spesso inascoltato che ha portato a scegliere la quantità e non la qualità dei nostri paesaggi. Coraggiosa è inoltre la scelta di esporre opere di architetti e studi di architetti giovani in una nazione che concede loro sempre meno spazio.
Infine si chiude con una visione, l’Italia al traguardo del 2050. Bisogna vincere la paura del futuro che pervade l’Italia per renderla un luogo universale in cui tornare a sperimentare e produrre “ponendosi domande e desideri inediti”. In collaborazione con la rivista Wired che ha indicato 14 “produttori di futuro” provenienti dai campi più disparati, dalla tecnologia all’arte che hanno consegnato i temi urgenti come “zero cubatura” o “risarcire le periferie” o ancora “invisibile diffuso” ad altrettanti architetti chiamati a produrre installazioni che interpretassero liberamente queste visioni.
Riuscirà il nostro paese a tornare ad essere una fucina di idee e progetti senza farsi frenare dall’incognita del futuro, favorendo il dialogo tra i saperi al fine di proporre un lavoro corale che coinvolga trasversalmente tutti i cittadini?
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