«Un’indagine strozzata». Nonostante la gravità dei fatti emersi – da un punto di vista temporale, geografico ma anche socioculturale, se si pensa al coinvolgimento di un’icona dell’antiracket – quella sugli appalti gestiti dai consorzi Co.Ro.Im e Virgilio resta un’inchiesta monca. A ribadirlo nelle oltre trecento pagine di ordinanza è la gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello. Per la giudice a mancare nel lavoro della procura sono «gli aspetti di maggiore interesse», ovvero le infiltrazioni della mafia nelle imprese e le logiche criminali che avrebbero governato la spartizione degli appalti. La lettura delle carte sembra rievocare sistemi simili al tavolino di Angelo Siino – il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra – ma a conti fatti a nessuno dei nove indagati è stata rivolta l’accusa di associazione mafiosa. Neanche a Francesco Scirocco, il 55enne già condannato a sette anni per concorso esterno per i rapporti tessuti con i Barcellonesi e i Tortoriciani.
Ma, per la gip, l’imprenditore messinese non sarebbe l’unico su cui sarebbe stato necessario un approfondimento. Altre due figure interessanti, in questo senso, sarebbero i fratelli Michele e Giacomo Iraci Cappuccinello, originari dei Nebrodi ma da tempo residenti a Caltanissetta. Accostamento a Cosa nostra che, stando a quanto verificato da MeridioNews, sarebbe stato fatto anche in passato. Quando le azioni che avrebbero portato intenzionalmente ai fallimenti delle società e dei consorzi al centro dell’indagine non erano ancora iniziate.
Lo screening genealogico
Nella stesura dell’ordinanza di custodia cautelare, la gip riporta i risultati delle indagini effettuate dalla Dia già nel 2014 sugli Iraci Cappuccinello. Un lavoro che ha portato alla scoperta di «parentele eccellenti». Dove per eccellente si intende la presunta vicinanza di alcuni familiari al boss Piddu Madonia, il capo indiscusso di Cosa nostra in provincia di Caltanissetta: iI padre Salvatore e lo zio Giacomo sono stati accusati di avere favorito la latitanza di Madonia a metà anni Ottanta. Il primo, inoltre, fu arrestato nel 2000 nell’operazione Castello di Assoro con l’accusa di avere manipolato un appalto per favorire la famiglia mafiosa. Gli incroci pericolosi nella vita degli Iraci – in passato risultati anche vittime di estorsioni – ci sarebbero anche guardando alle parentele acquisite. Il suocero di Michele Iraci, infatti, è Pino Calandra, uomo d’onore dell’area nebroidea con numerose condanne per mafia alle spalle.
Il pizzino di Binnu
Se per la giudice non può essere escluso che il peso specifico dei due fratelli imprenditori nel settore degli appalti possa essere stato frutto anche delle vicinanze a Cosa nostra, è certo che la famiglia Iraci Cappuccinello arrivò all’attenzione di Bernardo Provenzano. Il dato emerge da uno dei verbali del processo – conclusosi con le assoluzioni in appello – sui presunti rapporti tra Cosa nostra e l’imprenditore Stefano Potestio, ritenuto cerniera tra mafia e coop rosse. Il 23 gennaio 2017, davanti alla terza sezione del tribunale di Palermo compare il tenente colonnello Antonio Damiano. Al militare viene chiesto dei pizzini trovati nel 2002 a Nino Giuffrè, l’ex capo del mandamento di Caccamo poi divenuto collaboratore di giustizia. Quello è l’anno in cui Giuffrè viene arrestato. I carabinieri gli trovano nel borsello e nascosti in casa diversi messaggi scambiati con Provenzano.
Il contenuto del biglietto, archiviato dagli investigatori con il codice A24 e datato 24 ottobre 2001, è eloquente. Al punto 11, Provenzano scrive a Giuffrè. «Impresa Iraci che deve fare un lavoro di consolidamento a Belmonte Mezzagno, ora lo presento, ma mi chiederanno l’importo». Nella ricostruzione degli inquirenti quel messaggio sarebbe stato successivo a una richiesta fatta dal mafioso di Caccamo al boss corleonese affinché intercedesse nell’appalto. Non è chiaro l’obiettivo che Provenzano avrebbe dovuto perseguire, ma è certo che pochi giorni dopo arriva la disponibilità. «Provenzano scrive a Giuffrè che porterà avanti la richiesta di aiuto», ricostruisce il tenente colonnello. Non è possibile dire se il contenuto del pizzino sia stato trasmesso alla procura di Caltanissetta, ma è certo che nell’ordinanza della gip Luparello l’episodio non viene menzionato.
Spregiudicatezza, l’appalto casalingo e la sponda padovana
La Direzione investigativa antimafia ha esaminato a fondo il modo in cui, nel corso degli anni, i fratelli Iraci Cappuccinello hanno gestito le proprie società. I due imprenditori avrebbero sempre replicato uno schema: portare al limite un’impresa per poi, poco prima del fallimento, trasferire gli asset produttivi a un’altra società. La chiave di queste operazioni sarebbe passata per l’affitto dei rami d’azienda, una soluzione che garantisce di non ereditare debiti. La formula dell’affitto è prevista dalle regole del gioco, salvo che la stessa venga fatta con l’unico intento di raggiungere «l’espoliazione della società». Alcune spie, in tal senso, sono determinate dall’esistenza di canoni d’affitto irrisori, dalla loro mancata riscossione e dalla completa dismissione delle risorse produttive. Per la gip questi tre fattori avrebbero caratterizzato le parabole discendenti delle imprese Impreter e Gmi Strutture. E la stessa fine avrebbe potuto fare la Cantieri Generali, per la quale è stato disposto il sequestro.
Nel portafoglio lavori dei fratelli Iraci spicca l’appalto per l’ampliamento del tribunale di Caltanissetta. Una gara milionaria indetta dal Provveditorato alle opere pubbliche e vinta formalmente dal Co.Ro.Im, ma i cui profitti sarebbero spettati – nell’ambito della spartizione ipotizzata dagli inquirenti – alla Gmi degli Iraci. La conduzione del cantiere si sarebbe però contraddistinta per «inadempimenti contrattuali sia verso i dipendenti che verso i terzi prestatori d’opera», scrive la gip. Agli atti dell’inchiesta finiscono anche alcune intercettazioni in cui creditori degli Iraci arrivano a ipotizzare azioni violente. «Quando sono arrivati i mandati (di pagamento, ndr), per Natale, si sono messi di lato centomila euro. Si sono pagati avvocati, cazzi loro, il mutuo», commenta un ragioniere.
Alla spregiudicatezza che avrebbe contraddistinto l’operato degli Iraci anche dentro al consorzio Virgilio viene messa la parola fine nel 2015, quando il presidente del cda e paladino della legalità Gianpiero Falco, dopo essersi consigliato con l’imprenditore in odor di mafia Franco Scirocco, decide di estrometterli. Prima però gli Iraci erano riusciti a eseguire lavori al tribunale per quasi un milione di euro. L’estro gestionale dei due imprenditori ha registrato anche una cessione, ritenuta dagli inquirenti del tutto fittizia e utile soltanto a creare un diversivo nel passaggio da Impreter e Gmi Strutture, a un gruppo di padovani. Quasi tutti gravati da precedenti per reati finanziari e truffe.
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