di Gabriele Bonafede
Unendo teatro, cinema e opera, ma anche musica popolare e documentario, Roberto Andò e Marco Betta portano lo spettatore in un viaggio onirico dominato dalladdio a questa vita con il loro Sette storie per lasciare il mondo.
È una sfida, una ricerca espressiva che spiazza lo spettatore tipico del Teatro Massimo di Palermo, abituato a rappresentazioni a volte anche autocelebrative dellopera in senso stretto. Ed è, allo stesso tempo, una critica a quella che in molti hanno presentato come la scoperta cinematografica del secolo XXI: il film tridimensionale. Laddove il teatro è tridimensionale per definizione, Andò lo porta su un piano bidimensionale con due schermi che facilitano e arricchiscono la dimensione onirica e che esaltano laspetto cinematografico su quello teatrale.
Gli artisti, infatti, sono sempre dietro lo schermo e non davanti, subendo così la mancanza di presenza scenica a favore della visione in due sole dimensioni.
Inadatta a questa rappresentazione, larchitettura del Teatro Massimo finisce per togliere almeno il 70% al potenziale effetto, al pathos comunicativo. E non solo per la vetusta venustas della grande architettura palermitana di Giovan Battista Basile al cospetto delle sperimentazioni in XXI secolo, ma anche, e forse soprattutto, per le tonnellate di polvere tuttavia presenti nellimmaginario collettivo del possibile pubblico. Non aiuta limpianto del Massimo anche per le caratteristiche dello spazio operistico in se stesso: per ciò che evoca.
Lo spettacolo è attraente, pur facendo a pugni con le ricche decorazioni neoclassiche e i drappeggi in rosso pompeiano e oro del Massimo, poste lassù, prepotenti reliquie del passato. Sono proprio questi cazzotti, queste randellate, a dare una riconoscibile qualità semantica a Sette storie per lasciare il mondo. Esaltano il passaggio dei tempi, il voler lasciare il mondo operistico per un viaggio che va nel vero e proprio aldilà dellOpera.
Sette storie per lasciare il mondo. Foto tratta dal sito della Fondazione Teatro Massimo.Il tutto è in sintonia, dunque, con la narrazione-per-frammenti del passaggio allaldilà, del requiem per unepoca, una stagione, una vita, un tempo.
Se la narratrice stabilisce fin dallinizio il patto tra regista e pubblico avvertendo che non si tratta di una storia con un inizio e una fine, ma di un susseguirsi dimmagini e schegge di spettacolo, ben presto ci si rende conto di trovarsi ad osservare pensieri del sonno, immagini dormienti attraverso fotografie della vita, flash di un intero che si scompone e ricompone senza fine apparente.
Eppure, la fine del requiem sintravede, cè, ed è nella speranza. Nelle parole di speranza racchiuse in quei pochi secondi in cui Padre Pino Puglisi svela larcano di una vita: Lapertura di questo centro è per noi anche il segno di unesplicita fiducia nella solidarietà degli uomini. E seguite dalla fermezza di un Giovanni Falcone che stabilisce allinfinito, à jamais, di non aver paura, di non aver mai esitato nel disegno della propria vita.
I frammenti colpiscono, anche quando rischiano dessere oleografici, perché colgono lattimo fotografico trascinati dal corpo musicale: fotografia e musica ne stabiliscono i rapporti.
Maria Chiara PavoneFrammenti esaltati, quindi, nelle voci dei due soprani Gabriella Costa e Maria Chiara Pavone che riescono a superare lo schermo, gli schermi, posti tra teatranti e pubblico, tra scena e platea, riaffermando, laddove ritenuto necessario dal regista, le parole Teatro e Opera nella rappresentazione.
D’altronde Sette storie per lasciare il mondo, rappresentata già nel 2006 a Catania, è definita Opera per musica e film. È dunque lopera che serve la musica e il film, e non lopposto. E ciò ancor più quando, del film, emerge soprattutto la fotografia: non a caso è fulgidamente ispirata al ciclo di fotografie sul sonno di Ferdinando Scianna.
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