Amori insani in scena allo Zo

Due squarci difficili. Due donne infelici, interpretate da attrici bravissime a rendere sulla scena tristi casi di amore insano e, come vuole la scrittrice, a sviare continuamente lo spettatore da una interpretazione univoca di personaggi capaci di aprire inquietanti interrogativi.

 Ne “L’ultimo cliente” la scena (ad opera di Giusi Gizzo) proietta subito in un ambiente statico, recluso. È l’aurora, spazio di sogni, di fantasie, di speranze: mentre la notte si disperde nelle prime luci del giorno, in una squallida stanza, una prostituta (Mariella Lo Giudice) consuma l’ incontro con il suo ultimo cliente (Sebastiano Tringali). I due, avanzati nell’età, attuano da tempo la loro abituale compravendita in altro modo: lui, che ha sempre pagato la donna per avere il suo corpo,  ora esercita ogni sadismo e frustrazione, minacciandola con un coltello e costringendola a inventare sogni, fantasie a cui si sommano via via ricordi di occasioni perdute, confessioni vaghe d’amore, in un’alternanza di volere e dis-volere, disperata ironia e amaro cinismo.

La prostituta sottostà alle  richieste del suo cliente non più per soldi e non certo per paura, anzi più volte lo invita ad ucciderla e a porre fine alla sua vita iniqua. Ma durante il rituale sadomaso, in cui, tra parole e bugie crudeli, la donna riesce anche a ribaltare i ruoli puntando lei stessa il coltello alla gola del suo aguzzino, i due lasciano intravedere allo spettatore un barlume di sentimento possibile, lampi di debolezza e di cedimento alla gelida solitudine di cui sono vittime. Speranze subito stroncate quando il cliente se ne va, ritornando come sempre alla sua vita, e, inaspettata, la “mano del cielo” si incarna nelle mani di un violinista fallito che irrompe sulla scena uccidendo la prostituta con un colpo di pistola.
 
Ancora più gelida e spietata è la seconda pièce “La chiave dell’ascensore”, interpretata da Ida Carrara. Nello spazio claustrofobico di una stanza a cui si può accedere solo da un ascensore che si apre con la chiave, una donna sulla sedia a rotelle racconta di una bella castellana che passa il tempo chiusa nel suo castello ad aspettare invano, stagione dopo stagione, il suo cavaliere. Per lei, al contrario della castellana, il cavaliere arriva ogni sera: è suo marito, fa l’architetto, è solerte, premuroso al punto di consigliarle amorevolmente di non uscire dalla stanza, perché fuori si corrono troppi rischi. E così, per il bene del loro amore, la priva della chiave dell’ascensore e quindi di uscire.

Le conseguenze per la staticità della vita della donna non tardano a manifestarsi: una serie di terribili fastidi fisici a cui il marito, grazie all’aiuto di un medico compiacente, mette fine con una serie di interventi mirati a uccidere i nervi delle gambe e a privarla successivamente dell’udito e della vista. Alla donna non rimangono che le proprie strazianti urla di dolore che suscitano nello spettatore sentimenti contrastanti: disprezzo per il marito carceriere, pietà per lei, ma anche fastidio per essersi servita su un piatto d’argento al proprio carnefice, rimettendosi nelle sue mani, forse per non vivere fino in fondo la responsabilità della vita e per non aprirsi a tentazioni che potevano essere invece occasioni di fuga dalla sua trappola mortale (gli occhi blu di un giovane che un giorno la turbarono tanto erano una tentazione-occasione?). Fastidio, si diceva, per l’inutilità del suo sacrificio, per la sua ottusa obbedienza, in nome di un presunto amore che l’ha portata all’assoluta dipendenza e poi all’annichilimento. Infine, il gesto estremo della donna: quando il marito, disturbato dai suoi continui lamenti decide di privarla della voce, unico bene a cui lei non può rinunciare, trova finalmente la forza di ribellarsi e lo uccide.

Gli epiloghi, nelle due pièce giungono improvvisi, a porre fine alle penose messe in scena della prostituta, nella prima, e a restituire, forse, dignità, alla donna mutilata, nella seconda. Entrambe hanno dato il loro corpo e poi la loro anima, entrambe cercano di assecondare un improvviso e fatale istinto di sopravvivenza, dei sogni, e della vita. Senza eroismo, senza riscatto. A parte la durezza della parola di una scrittrice che ha vissuto la tirannia stalinista nel proprio paese, le pièce e le particolari interpretazioni delle due attrici lasciano intravedere, dall’alto delle loro amplificazioni teatrali, i piccoli possibili, invisibili meccanismi perversi che per qualche motivo oscuro e umano, si creano in una coppia di individui, diventando spesso parte integrante di un mènage che, come un cane che si morde la coda, si nutre e si logora negli anni, al limite della resistenza.

Perché esiste sempre un’altra verità, nulla è solo ciò che appare ed è sempre utile chiedersi dove finisce la libertà e inizia la privazione.

Rita Cocuzza

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