Allende, l’«eterna straniera in Paese straniero» Le storie della scrittrice al Teatro greco-romano

Isabel parla di sua figlia Paula al presente. Non crede nelle convenzioni del tempo e della distanza, sono convenzioni fragili come scrive lei stessa. Passato, presente e futuro non accadono in momenti diversi, ma contemporaneamente, è tutto un flusso. È un flusso la vita, quello che ci succede, ciò che viviamo per noi è un tutt’uno, accade e basta. È un fiume in piena, Isabel Allende al Teatro greco-romano di Catania, ospite del Taobuk per ritirare il premio Sicilia. Racconta della nonna Isabel che rivive in Clara ne La casa degli spiriti, un faro, presente anche dopo la morte sotto forma di spirito nella vita della scrittrice o di gatto nella stanza della sua casa in California mentre assiste Paula nel lungo anno che ha passato in coma vegetativo. Parla di sua madre Panchita, abbandonata dal marito quando era giovane e con tre bimbi piccoli, risposata con quello che la scrittrice chiama Tio Ramòn. Con sua madre intrattiene una corrispondenza quotidiana, lunga una vita, che continua ancora oggi. Lettere che rappresentano un tesoro inestimabile per la scrittrice che le ha fatte digitalizzare e catalogare in ordine cronologico affinché non vadano perdute in un incendio o nei viaggi e nei traslochi che hanno segnato la sua vita e che hanno causato la perdita di parte di esse.

È generosa Isabel, dona tutto ciò che ha dentro, tutto ciò che ha vissuto, forse per l’esigenza che ha di raccontare o forse perché sa di essere stata un punto di riferimento nella vita di molte donne alle quali ha infuso coraggio con i suoi personaggi, con le sue storie dove realtà e magia si mischiano diventando un balsamo vischioso che si appiccica addosso e a cui si può attingere in momenti particolari. Chi, tra i suoi lettori, può dire il contrario? Non è forse vero che una storia può cambiarti la vita? Verrebbe da chiedere cosa ha Isabel Allende che le altre scrittrici non hanno. È uno scricciolo di donna, circondata da una forza che non intimorisce ma invita, ti invita alla conoscenza, a essere curioso ma forte abbastanza da andare fino in fondo dopo che hai soddisfatto la tua curiosità. Ama l’erotismo estremo, non la pornografia. Ama l’immaginazione, non il pregiudizio. Ama il coraggio, non l’incoscienza. 

Sulle sue spalle porta storie da tutto il mondo: Perù, Cile, Svizzera, Stati Uniti, Venezuela, Spagna, Libano. Quando deve scrivere un romanzo, va nel luogo che deve raccontare per carpirne l’essenza, per rubargli un po’ d’anima. È quello che fa anche con i suoi lettori, entra in punta di piedi, con un ritmo lentissimo, un occhio scrutatore, detta lei il tempo della lettura, dell’attenzione, del coinvolgimento, dell’emozione, della lacrima. Ma poi fa un passo indietro e insieme al lettore, che ormai è uscito dalla dimensione della realtà ed è inghiottito dalla storia, definisce la potenza della sua scrittura, un planisfero di parole, musica, visioni, figure di piccole donne che diventano mito, dee da invocare.

Al Taobuk rompe ogni tabù parlando di quando di ritorno da un viaggio ad Amsterdam le chiesero di aprire la valigia e vennero fuori falli e materiale pornografico che la figlia Paula le aveva commissionato per i suoi studi di sessuologia. Parla dell’amore tra anziani e della marjuana, del diritto al piacere. Il senso dell’umorismo è una rete dove imbrigliati vi sono i suoi valori, le sue credenze, le tradizioni, il dolore della perdita di una figlia, le separazioni, l’esilio. Si definisce un’«eterna straniera in paese straniero», il Cile è la sua terra. Alla domanda di Alessandra Coppola su cosa ne pensa sull’emergenza profughi di cui è scenario l’Italia ma in particolare la Sicilia, dice «Non ci sono mai stati profughi siriani, adesso ci sono. Non ci sono mai stati profughi venezuelani, adesso ci sono. Nessuno lascia la sua terra per piacere per poi viaggiare in queste condizioni. I fatti parlano, le guerre parlano». Odia Trump e i muri. Ama la vita e l’amore, in tutte le forme.

Sanaz Alishahi

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