Alla ricerca del cambio perduto – Quarta parte: Dal Sistema Monetario Europeo alla guerra tra le comari. La fine di un glorioso trentennio

Dopo la fine degli accordi di Bretton Woods e del fallimento dell’esperienza del serpente monetario europeo  la Francia e, soprattutto, la Germania ovest spinsero per la creazione del Sistema Monetario Europeo. Il sistema monetario a cambi fissi entrerà in vigore nel 1979, dopo un anno di acceso dibattito politico, soprattutto in quei paesi, come l’Italia, che avrebbero meno vantaggi dall’adozione del nuovo sistema. Il governo che si trovò a gestire l’importante decisione fu l’Andreotti IV con l’appoggio esterno del P.C.I.

Sia il P.C.I. che la C.G.I.L., nonostante le conseguenze negative per i lavoratori che vedremo più avanti, aderirono al sistema di cambi fissi anche se il Partito comunista aveva posizioni interne molto eterogenee che condussero a subordinare la possibilità di approvazione all’accettazione di alcune condizioni affinché fossero attenuate le conseguenze del vincolo esterno. Tali proposte sono riassunte nel discorso del ministro democristiano Pandolfi alla Camera il 10 ottobre 1978.

La richiesta del P.C.I. – fatta propria anche dal governo e proposta ai paesi della Comunità europea – era quella di arrivare alla fissità dei cambi attraverso un periodo di transizione meno rigido, ponendo delle misure a favore delle economie più deboli in senso di raggiustamento delle bilance commerciali nei casi di forti asimmetrie tra paesi in avanzo e disavanzo.

Dal vertice di Bruxelles del dicembre 1978 però, l’Italia uscì sconfitta. I paesi più forti (in primis Francia e Germania ovest) concessero solamente un allargamento della banda di oscillazione che passò dal 2,5% al 6%. La proposta del P.C.I. non venne quindi accettata e la mozione della votazione in aula fu spezzettata in tre parti. Il P.C.I. si astenne per la prima e la terza parte e votò contro solo sulla seconda che riguardava l’entrata immediata dell’Italia nello S.M.E.

I paralleli tra fine anni settanta e il momento attuale sono davvero impressionanti. Anche allora al popolo italiano vennero elargite informazioni tendenti a convincerlo della necessità di sacrifici per una “maggiore integrazione europea”. Mentre per l’Euro abbiamo assistito ad un dibattito politico inesistente e ad un partito unico favorevole al vincolo monetario esterno, nel 1978, almeno nelle camere parlamentari, furono evidenziate le conseguenze negative che un vincolo valutario avrebbe portato alle classi lavoratrici italiane. Colpisce molto leggere le parole di chi intervenne per il P.C.I. nel dibattito sullo S.M.E. alla camera dei deputati: “la conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità. È così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia alla deflazione.” E ancora: “le regole dello SME ci possano portare ad intaccare le nostre riserve e a perdere di competitività, ovvero a richiedere di frequente una modifica del cambio, una svalutazione ufficiale e brusca della lira fino a trovarci nella necessità di adottare drastiche politiche restrittive”(1). Chi parlava era Giorgio Napolitano.

Ma le conseguenze disastrose per la classe lavoratrice italiana non furono provocate solamente dall’adesione allo S.M.E. Qualche anno dopo, all’insegna dell’indipendenza delle banche centrali secondo la teoria economica allora molto in voga in occidente (il monetarismo della scuola di Chicago) il ministro Andreatta, senza alcun dibattito politico, decise un cambiamento epocale nella politica monetaria, e conseguentemente fiscale, del paese, ovvero il divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia.

Quel periodo viene ricordato anche come “la vicenda delle comari” che portò alle dimissioni del ministro socialista Rino Formica e alla crisi del governo Spadolini (uno spaccato di quel periodo lo si può leggere dalle dichiarazioni dello stesso protagonista). La convinzione ideologica monetarista di fondo è che un’eccessiva offerta di moneta, fenomeno creato dall’espansione creditizia dovuta al matrimonio tra banca centrale e governo, creasse inflazione. In particolare il tasso di crescita dei prezzi era determinato dal tasso di crescita della moneta secondo l’equazione quantitativa fischeriana tanto cara a Milton Friedman ed ancora di moda nella letteratura economica dominante.

Tuttavia tale teoria non è supportata dai dati.

Fig. 1 – Andamento M3 e inflazione rispetto agli obiettivi della BCE. Serie 1999-2010

 

Risulta lampante dalla lettura della figura 1(2) che non sussiste una relazione tra l’aggregato monetario M3 (somma di tutte le liquidità a breve termine compresi depositi e titoli a breve scadenza) e il tasso di inflazione. Questo perché la quantità di moneta in circolazione, come anche le variazioni dei prezzi, sono legate a fattori e dinamiche reddituali e quindi di domanda aggregata (secondo la teoria keynesiana ortodossa).

Gli effetti dei provvedimenti del 1979 (adesione al Sistema Monetario Europeo) e il divorzio del 1981 furono deleteri per la classe lavoratrice e per l’economia italiana. Se aggiungiamo la cancellazione della scala mobile, il risultato non poteva essere che un calo vertiginoso della quota percentuale sul PIL dei salari come è visibile dalla figura 2(2)

Fig. 2 – Quota salari e inflazione in Italia 1960-2008

La cessione di reddito nel conflitto interclassista da parte delle classi lavoratrici verso le rendite finanziarie è dimostrato, oltre che dalla figura precedente anche da questo grafico che abbiamo conosciuto nel precedente articolo(3).

Fig. 3 – Rendimento reale medio dei titoli di Stato e crescita reale in Italia 1970-2008

 

Come noterete, prima del divorzio l’Italia si finanziava a tassi d’interesse negativi. A causa del divorzio e del vincolo valutario esterno, che ha provocato una perdita di competitività sul lato dei prezzi, l’Italia ha visto crescere il suo debito pubblico soprattutto come interessi passivi (per via del collocamento obbligazionario presso i mercati finanziari), con conseguente diminuzione della spesa pubblica corrente.

Inoltre assistiamo ad un aumento della disoccupazione a causa, come abbiamo detto sopra, del trasferimento reddituale dal basso verso l’alto e di una distorsione del circuito del risparmio, per cui lo Stato e le imprese distolgono risorse dagli investimenti produttivi per indirizzarle verso il pagamento di interessi passivi (lo Stato) e titoli pubblici che offrono rendimenti maggiori (le imprese).

Fig. 4 – Tasso di disoccupazione e d’inflazione in Italia dal 1980 al 1992

 

 

In questo periodo d’innalzamento della disoccupazione notiamo un abbassamento dell’inflazione (fig. 4)(4), la quale non è causata dal divorzio e quindi dal controllo dell’offerta monetaria della BdI, ma da un trade off con la disoccupazione come dimostrano – quantunque ne dicano gli economisti di estrazione monetarista e neoclassica – gli studi sulla curva di Phillips di lungo periodo.

Questa combinazione di vincoli fiscali e monetari condusse il paese a bloccare lo sviluppo del trentennio precedente a discapito del rapporto dialettico tra le classi produttive. Rapporto che sarà inasprito dalle successive riforme del lavoro e dall’introduzione di sempre maggiori dosi di politiche liberiste.

Come sappiamo tutte le contraddizioni del S.M.E. si manifestarono con la crisi del 1992, che obbligò l’Italia a rompere gli accordi monetari internazionali e a svalutare la Lira di circa il 20%. Svalutazione che non condusse certo al disastro come persino Giuliano Amato ammise in una dichiarazione. Ma di questo ci occuperemo la settimana prossima.

(4. continua. Leggi le puntate precedentiIntroduzionePrima parteSeconda parteTerza parte)

 

 

Note:

1.L’intervento alla camera di Giorgio Napolitano è tratto dal blog main stream.

2. la figura è tratta da Goofynomics.blogspot.it.

3. La figura 3 è stata elaborata con i dati del Fondo Monetario Internazionale e tratta da “Il Tramonto dell’Euro”, di Alberto Bagnai – Imprimatur Editore.

4. Elaborazione dell’autore dell’articolo. International Labour Organization per la disoccupazione. Fondo Monetario Internazionale per l’inflazione, in particolare è stata utilizzata la voce “Inflation, end of period consumer prices”.

 

Marco Palazzotto

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