Qual è stato il momento decisivo della partita che il Catania ha vinto in casa, sabato pomeriggio, contro il Varese? Le cronache, giustamente, insisteranno soprattutto sul gol di Calaiò. Un gol di superba bellezza, segnato dopo nemmeno sette minuti di gioco. Una di quelle rovesciate acrobatiche che un tempo sarebbero finite sull’album delle figurine Panini.
Però, va detto, sul risultato finale ha pesato almeno altrettanto il gol di Rosina. Un gol semplice e chirurgico, il primo segnato su azione dal generoso numero dieci rossazzurro. Un gol ispirato da un passaggio dello stesso Calaiò, che ha permesso ai rossazzurri di chiudere il primo tempo con il rassicurante vantaggio di due a zero.
Volendo esser buoni, però, si potrebbe dare qualche merito anche a una bella parata di Frison. Una respinta difficile, su tiro da due passi di un attaccante avversario che gli stava davanti indisturbato, che di cognome, poveraccio, fa Miracoli. Una parata che, una volta tanto, ci consente di iscrivere all’attivo la prestazione di un portiere del Catania. Cosa molto rara, purtroppo, negli ultimi anni, e fin qui rarissima anche in questo campionato.
Se invece vogliamo fare i difficili, i pessimisti a tutti i costi, allora il momento più importante potrebbe esser stata la banale ammonizione rimediata da Calaiò. Il quale è finito sul taccuino dell’arbitro Ros – un mediocre e compulsivo sbandieratore di cartellini – per avere furbescamente allontanato un pallone per ostacolare la ripresa del gioco. Un’ammonizione irrilevante, in verità, per l’esito della partita col Varese; ma pesante assai in vista della prossima, dato che Calaiò era diffidato e non potrà giocare domenica a Trapani. Calaiò è infatti tra i giocatori del Catania che è impossibile sostituire. Come Rosina, o come Rinaudo. Cosa ampiamente dimostrata dal pessimo esito di tutte le partite in cui ci è mancato anche uno solo di questi elementi.
E però a me – che, con tutta la mia vigile diffidenza verso la gestione di Cosentino, non riesco a vietarmi, dopo una vittoria, di sognare almeno un po’ – piacerebbe pensare che il momento decisivo sia stato un altro. E precisamente quello che abbiamo vissuto al ventisettesimo della ripresa, allorché Sannino ha richiamato in panchina Leto e lo ha sostituito con Marcelinho. Sono accadute in quel momento due cose che, finora, non ricordo siano mai successe: e cioè che Leto è uscito con il sorriso, e addirittura salutando i compagni con cordialità. E che il pubblico – non dico tutti i tifosi, ma una larga parte di essi – si è messo ad applaudire, inaspettatamente, il giocatore argentino.
Non è che Leto abbia fatto queste grandi cose per meritarsi l’applauso. Giusto il minimo sindacale, direi: correre, impegnarsi, qualche volta perfino passare la palla. Niente di memorabile. Pure, il pubblico del Massimino – verso cui il giocatore è largamente in debito, per il poco bene e il molto male costruito fino ad oggi – ha deciso di offrirgli un sonoro anticipo di fiducia. Con la tacita intesa che, da oggi in poi, toccherà a Leto meritarsela.
Sarebbe bello se quest’applauso fosse la nascita di qualcosa. Sarebbe bello se fosse cominciata oggi, per Leto, una piccola rivoluzione copernicana. Se il giocatore avesse finalmente capito che non serve a niente pensarsi come il centro del mondo, giocare per se stesso, svillaneggiare l’allenatore a ogni cambio non gradito; se avesse cominciato a imparare la concretezza, il sacrificio e l’umiltà. Sarebbe bello, si potrebbe dire, se scoprissimo che Leto non è più il solito Leto; e che dentro di lui – per uno di quei prodigi cui talora si assiste al Massimino – sta cominciando a penetrare lo spirito di Rosina.
Non ho prove, s’intende, per corroborare questo desiderio. Per adesso, ho soltanto l’applauso che il pubblico ha regalato a Leto. E la speranza che Leto si dia da fare, d’ora in poi, per ricambiarlo con un perché.
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