Al Circolo di lettura si legge “Un pedigree” di P. Modiano

Nel penultimo incontro (prima della pausa estiva) del “Circolo di lettura”, promosso dalla facoltà di Lingue e letterature straniere in collaborazione con l’Associazione Librai Italiani e con il Centro culture contemporanee Zo, i MercatiGenerali, la Scuola d’arte drammatica Umberto Spadaro, lo studioso di letteratura contemporanea Massimo Schilirò ha letto alcuni brani tratti da “Un pedigree” (Einaudi 2006, collana Supercoralli, trad. it. Irene Babboni, 78 pp.) dello scrittore e sceneggiatore francese Patrick Modiano.

 

In questo racconto l’autore ricostruisce la propria infanzia, vissuta sul filo dell’assenza e dell’estraneità, mentre il mondo scorreva sullo sfondo, come in un vecchio film. Un film pieno di personaggi affascinanti e bizzarri che, come tessere di una vita osservata e lasciata fluire, restano immobili mentre in trasparenza scorre la storia, quella della seconda guerra mondiale, della deportazione degli ebrei e del difficile dopoguerra. “Un pedigree” è un racconto incentrato sul tema della scomparsa, del mistero, della negazione: un romanzo di ombre e di memoria, in cui l’autore ricostruisce i fatti con appassionata curiosità, ricercando tra documenti personali, ripercorrendo le strade della sua infanzia, con il solo scopo di tirare le fila della sua esistenza per risalire alle origini di se stesso.

 

Siamo nella Parigi del 1942. Durante l’Occupazione un uomo e una donna si incontrano: lui è un ebreo di origini toscane, lei è una fiamminga arrivata a Parigi inseguendo il sogno di diventare ballerina. I due si sposano e hanno due figli, uno è Patrick Modiano, ma trascorrono la maggior parte della propria vita cercando di non occuparsene. Per vent’anni vivono insieme in un appartamento di Parigi, ma quelle che conducono sono vite parallele che non si incontrano mai del tutto. Così il piccolo Patrick vive un’infanzia segnata dall’indifferenza dei genitori, da affidamenti a persone di fiducia che improvvisamente vengono arrestate dalla polizia, da reclusioni in collegi freddi e inospitali “dove si viene sistemati come nel deposito bagagli di una stazione dimenticata”: la triste infanzia dei non amati.

 

Intorno e dietro di loro appaiono, come in una lunga e ininterrotta sequenza di flash back, strani personaggi: uomini d’affari, cinici profittatori, attricette pronte a tutto, registi affermati, protettori e aristocratici in declino, tutti uomini sfuggiti alla guerra e alle deportazioni che si arrangiano come possono in mezzo alle difficoltà del dopoguerra. A essere narrato in queste pagine è un universo di volti, a tratti solo un nome o un soprannome, che Modiano cerca di far riemergere dalla profondità della memoria per ricostruire una personale carta d’identità, o meglio per tracciare un impossibile e indefinito pedigree, ma che in realtà hanno il solo effetto di confondere il lettore che ad ogni pagina cerca di ricollegare i nomi e i personaggi alla storia che viene narrata.

 

Il tutto ambientato una Parigi-labirinto minuziosamente ricostruita nella sua esattezza topografica e ricchezza di dettagli. La peculiarità del racconto, redatto con uno stile diretto e scabro (in un’intervista Modiano confesserà di aver cercato sempre di dire le cose utilizzando il minor numero di parole possibile), è infatti la creazione di una cartografia romanzesca, tipica di Perec, che nel racconto di Modiano si esemplifica nel riconoscimento dei luoghi attraverso l’incontro casuale con i luoghi stessi, durante lente e solitarie passeggiate.

 

In questo racconto «non c’è confessione né autocoscienza – afferma Schilirò -, nessuno dei personaggi è a tutto tondo, non c’è introspezione psicologica», se scrive lo fa esclusivamente per dovere di cronaca, come è chiaro fin dalle prime righe: “Scrivo questo libro come si redige un verbale o un curriculum vitae”. Modiano racconta una storia a cui è estraneo (la storia dei genitori), narra di un passato a cui ha accesso grazie ad alcune tracce enigmatiche trovate per caso, “perché è più affascinante e stimolante ritrovare le tracce delle cose che non le cose stesse”, dirà più tardi l’autore. In “Un pedigree”, come in altri romanzi, dunque, non racconta i fatti in maniera diretta ma vuole offrire al lettore diverse chiavi di lettura del passato.

 

«Un libro che rimane – confessa alla fine Schilirò – di difficile fascino, caratterizzato da una narrazione asciutta ma incalzante, almeno negli intenti dell’autore. Modiano scrive questa storia col solo intento di tirare le fila di una storia che non ha vissuto in prima persona ma da cui è inesorabilmente attratto in seguito al ritrovamento di alcune tracce lasciate dal padre,  come il nome del padre nel citofono che non corrisponde al nome conosciuto dal figlio, proprio come si ricompone un puzzle. E il lettore non può fare a meno di venir risucchiato dalle tracce che lo scrittore dissemina qua e là tra le pagine rapide e fitte del suo libro».

 

 

NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE 

Patrick Modiano nasce a Boulogne Billancourt, presso Parigi, nel 1945. La guerra è appena conclusa, ma è in quell’immediato antefatto che Modiano scaverà alla ricerca della radice sepolta della sua vita. Parigi occupata ha ombre e nebbie che destano una curiosità ossessiva da cui scaturiscono inchieste la cui posta di conoscenza è l’io e i suoi possibili. Esordisce, scoperto da Raymond Queneau, con “La place de l’Etoile” (1968); ma è “Rue des Boutiques obscures” (1978) che, grazie al premio Goncourt, gli dà la notorietà. Pubblica ancora libri e racconti, o affida i suoi temi alla sceneggiatura cinematografica (ad esempio per “Cognome e nome: Lacombe Lucien” (1974) di Louis Malle, tappa imprescindibile della riflessione postbellica sull’occupazione tedesca e il collaborazionismo). “Dora Bruder” (1997) riunisce i temi ossessivi della sua ricerca: l’occupazione, la clandestinità, la ricerca della propria identità, la nostalgia di un tempo anteriore, la forza imperativa del ricordo e l’amnesia. La ragazzina Dora, fuggita dal collegio, poi non si sa come riconsegnata al suo destino di vittima della Shoah, è l’oggetto di una pietas che è pietà anche per un destino che poteva essere dell’autore che in Dora vede come un alter ego femminile. Dopo “La petite Bijou” (2001), in cui cerca di scoprire se la donna intravista nella metro è la madre scomparsa della protagonista, pubblica “Un pedigree” (2005), il racconto autobiografico della sua infanzia.

Chiara Nicotra

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