Aiace e Fedra, drammi della follia

Al teatro di Siracusa, per assistere alle rappresentazioni tragiche, ieri come oggi. Gli Antichi Greci vi si recavano, è noto, in occasione delle feste Dionisiache. E l’agone tragico, della durata di tre giorni, prevedeva una tetralogia (cioè tre tragedie e un dramma satiresco) per ognuno dei tre autor scelti. Un’occasione che coinvolgeva tutta la polis democratica. A tal punto che era previsto un sussidio per i meno abbienti, di due oboli: il teoricon. A teatro si discuteva, si rifletteva dei problemi della polis, che venivano messi in scena.
 
E oggi? I Greci riflettevano a teatro. Noi, invece, più rozzamente, davanti al televisore (magari guardando un talk show). Certamente qualcosa è cambiato. Non si discute affatto sul problema della rappresentazione. L’oggetto di interesse è altro. E’ lo spettacolo, la recitazione, icostumi, le scelte registiche, le scenografie. Di questo si discute.

Sul palco di Siracusa per il ciclo delle rappresentazioni classiche (nel video, il trailer ufficiale della manifestazione organizzata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico) quest’anno, sono approdati Fedra e Aiace. Il filo rosso che li lega è la follia, che inesorabile li conduce al suicidio.

Fedra ovvero Ippolito portatore di corona, del più giovane e criticato dei tre tragediografi, Euripide, è in scena nella traduzione di Edoardo Sanguineti, scomparso il 18 maggio scorso.

Una traduzione che è risultata incomprensibile e ostica al pubblico. E che, invece, è da apprezzare, a parere di chi scrive, proprio per la sua difficoltà, ruvidità e il suo tono classico. Una “traduzione a calco”: così l’ha definita Sanguineti. Perché: “Bisogna grecizzare l’italiano, non italianizzare il greco”.

Una Fedra, per la regia di Carmelo Rifici, all’insegna dell’essenza, della semplicità. Anche nella scenografia minimalista, basti pensare al “cavallo a dondolo”, nelle scene finali. Una scelta che certamente paga il confronto con la Medea dell’anno scorso, per quanti ricordano ancora l’ultima scena dell’eroina sul carro del Sole. Ancora peggio, se il termine di paragone è lo spettacolare Aiace sofocleo (nella traduzione di Guido Paduano, diretto da Daniele Salvo). Il dinamismo offerto dallo specchio d’acqua al centro del palco, su cui cammina Atena, in apertura, e sul quale si muove, nell’arco di tutta la rappresentazione, il coro dei marinai achei. E ancora la tenda di Aiace: una scatola nera che si apre “a sorpresa”. In un ritmo crescente di spettacolarità che ha il suo apice nella scena finale “infuocata”. Una scenografia in cui si combinano i quattro elementi: acqua, fuoco, terra e aria. E il sangue e gli animali sgozzati nella tenda come espressione della follia dionisiaca di Aiace, che entra in scena ancora delirante. Da contraltare la disperazione e il dolore dell’Eroe, una volta rinsavito, e della serva Tecmessa.

Fedra e Aiace pagano caramente il prezzo della vergogna. Nella tragedia euripidea, l’amore incestuoso per il figlio Ippolito. In quella sofoclea, l’eccidio nel campo acheo. Entrambi vivono in una civiltà della vergogna, nella quale, l’unica scelta possibile è il suicidio. Fedra e Aiace, però, sono come giganti e, anche dopo la morte, continuano a restare in scena. Entrambe le tragedie seguono un modello a dittico. Nella seconda parte della Fedra, la tragedia si sposta sul destino di Ippolito portatore di corona. Nell’Aiace, alla morte dell’eroe, segue il dibattito sulla sua sepoltura (tema centrale dell’Antigone).

La follia di Fedra e Aiace è una macchia indelebile della quale vergognarsi e che può essere cancellata solo con la morte. Per gli spettatori, un invito a riflettere sulle dinamiche attuali ove non sembra vi sia rimasto posto per la vergogna.

Elena Caruso

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