Per sabato 3 ottobre, per la manifestazione sulla libertà di stampa, siamo milioni a pensare: finalmente!
Finalmente un segno di vitalità da parte di un paese che sembrava narcotizzato, di giornalisti che – con poche eccezioni – parevano tramortiti.
Perché le involuzioni autocratiche possano verificarsi c’è bisogno almeno di due cose: una classe politica di governo con queste vocazioni, e un’opinione pubblica addormentata o connivente.
Finalmente una reazione al delirio arrogante del potere, alla pirateria politica, all’annullamento (e autoannullamento) delle opposizioni, allo stravolgimento delle regole e al traballare delle istituzioni. Speriamo che ne seguano altre: ad esempio rispetto alla plutocrazia; o all’analfabetismo e all’incultura cui si vogliono consegnare le generazioni giovani; o al disastro cui è già consegnato il loro futuro lavorativo.
Non è facile spiegare che tutto questo si tiene, e che tutto questo ha un rapporto strettissimo con quel diritto che in democrazia è fondamentale per ogni cittadino: essere informato correttamente da una stampa libera, per poter oculatamente ragionare e scegliere.
Come accade per molti altri diritti, abbiamo sbagliato a crederlo conquistato una volta per tutte: va continuamente vissuto, affermato, difeso, protetto. Perderlo è stato molto più facile di quanto non pensassimo.
Il modo più tragico e definitivo di perderlo è non accorgersene: essere socializzati in un mondo in cui esso è considerato irrilevante. Per questo mi sta particolarmente a cuore lo sguardo di chi ha vissuto la maggior parte della sua vita in regime berlusconiano.
Ho difficoltà sempre crescenti a spiegare agli studenti diciotto/ventenni di Sociologia della comunicazione che il cuore del nostro tema, e dunque il centro del loro studio non è l’appeal carismatico di questo o quel leader, non la capacità di una faccia di “bucare lo schermo” o di una voce di vendere bene la propria merce, ma la possibilità offerta dal sistema mediatico di assistere a rappresentazioni variegate e non mutilate della realtà, a opinioni differenti e non addomesticate sui problemi. La sua attitudine a formare alla complessità del mondo.
Dal mio osservatorio imputo alla cultura dominante un delitto grave, che ha visto moltissime complicità: di aver imposto lo stravolgimento del ruolo dei media, e la confusione tra comunicazione e pubblicità (tra visibilità e autorealizzazione?).
I miei studenti sono figli di questa cultura, la ritengono l’unica concepibile. I miei studenti non leggono i giornali, al massimo scorrono dei titoli sul web. Guardano molta televisione, ma tra loro il 90% segue i reality anche più trucidi; il 9% ha visto Report almeno una volta.
Se quel 9% sarà a Roma il 3 ottobre, forse potremo risalire la china.
* ordinario di Sociologia della comunicazione alla facoltà di Scienze politiche di Catania
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