Afterhours light al teatro Coppola E Catania si finge morta, ma ha fame

Quando Manuel Agnelli dice «se vi va di cantare salite sul palco» dà la definizione di «teatro dei cittadini». «Io sono qui e voi siete lì – sussurra al microfono il cantante degli Afterhours – Se volete fare una canzone, ve la suono». A quel punto ho pensato che il teatro Coppola, il lunedì di pasquetta, era il centro di Catania. Me ne sono resa conto meglio quando la mia amica ha detto «io adoro questa città, ma non c’è niente». Invece su un palco occupato, in un posto che fino a dicembre era chiuso, c’era tutto un mondo. C’erano i due ragazzi che hanno preso il microfono e hanno cominciato a cantare Strategie – esimendo Agnelli, che di farla proprio non aveva voglia – e non erano sicuri che fosse reale. Uno si metteva le mani nei capelli, si girava e non ci credeva, mentre una sua amica gli faceva un servizio fotografico da tramandare ai posteri. E c’era la ragazza che ha voluto fare Quello che non c’è e s’è meritata l’applauso di tutti. Poi è tornata al suo posto, ha ascoltato l’ultimo pezzo, e quando si sono accese le luci s’è guardata attorno e ha detto: «Questo è il giorno più bello della mia vita». Sorrideva, contenta.

Duecentocinquanta posti andati tutti esauriti in un minuto e mezzo. Migliaia di email arrivate al teatro per riservarsi una sedia al prezzo di cinque euro. Conosco gente che ha aspettato che scattassero le 12 di giovedì – data e orario dell’apertura ufficiale delle prenotazioni – col puntatore del mouse sul tasto «invia» della sua casella di posta. E poi l’attesa per il responso, aggiornare spasmodicamente la mail per verificare di aver ottenuto una risposta. Un mio amico ha ricevuto la prenotazione numero due. Ha stampato la mail di conferma in duplice copia, nel caso una sola non bastasse. Ci sono molti modi non voleva perdersela. Né Pelle. Né Bianca. Né Non è per sempre.

E nemmeno una cosa bella in città. Che non sono gli Afterhours in sé (formazione light con Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo e Roberto Dell’Era, più Cesare Basile alla batteria). Cioè, pure loro. Ma anche l’occasione. «Puoi finger bene, ma so che hai fame», canta il gruppo milanese dal 1999. Ed è la sintesi di questa Catania, che finge benissimo di essere morta. Uccisa dall’inedia e dalla catanesità, dalla noia e dai locali del centro tutti uguali, dai pub che vogliono soltanto cover band e hanno scordato quanto fosse la musica a rendere la città raggiante. Però ha fame. I catanesi sono affamati. I giovani più degli adulti fatti e finiti. Perché se il mondo non vuoi mangiarlo a morsi dai venti ai trent’anni non puoi sperare di sognare di farlo a cinquanta.

Ogni volta che sono andata al teatro Coppola – un luogo che se fosse per l’amministrazione locale sarebbe ancora abbandonato – l’ho trovato pieno. Un paio di volte erano concerti, un’altra era uno spettacolo teatrale. Sono sempre rimasta in piedi, perché non c’era spazio dove sedersi. Pure a terra era tutto un tappeto di gambe incrociate all’indiana. E gli applausi erano come il brontolio di uno stomaco inattivo da troppo tempo. All’ombra dell’Etna siamo a digiuno. Ci nutriamo di briciole e ricordi, viviamo del mito di quando i Rem venivano in concerto al Cibali e Carmen Consoli  stregava Sanremo presentata da Pippo Baudo. Catania era dappertutto, quasi vent’anni fa. E io ero talmente piccola che parlo per sentito dire. Vado avanti di racconti, video d’archivio, letture a tema. Mentre aspetto – famelica anche io – che il periodo d’oro ricominci.

[Foto degli Afterhours su Myspace]

Luisa Santangelo

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