Acireale, Barbagallo è il nuovo che avanza? Quando il voto scavalca le appartenenze

Amministrare una vittoria, per giunta di larghe proporzioni, nella maggior parte dei casi è più difficile che vincere. Deve essere un pensiero ricorrente nella testa di Roberto Barbagallo, neosindaco di Acireale da otto giorni. Perchè la portata della sua affermazione va ben oltre il dato di essere diventato primo cittadino del centro più importante dopo Catania, nella provincia. Quello di Barbagallo è stato un successo che ha segnato una cesura storica nella vita della città delle cento campane, segnando la fine dell’era di Basilio Catanoso e l’inizio o, per meglio dire, la prosecuzione con altri mezzi e altre prospettive dell’era di Nicola D’Agostino, di cui Barbagallo è da anni il braccio destro e sinistro.

Una elezione costruita dalla politica che, però,  ha contemporaneamente messo sotto i riflettori tutta la debolezza della politica come la intendiamo tradizionalmente. Il neo sindaco, infatti,  è il prototipo perfetto dell’homo politicus 2.0: poco ideologizzato, difficilmente riconducibile ad una militanza politica ben definita – se D’Agostino è dell’Udc, Barbagallo non può considerarsi un esponente di questo partito -, capace di aggregare consenso intorno alla sua persona abbattendo gli steccati delle diverse appartenenze. Conoscitore della macchina amministrativa e dei procedimenti decisionali come pochi, ha enormemente allargato il suo sistema di relazioni quando, nell’ultimo anno del governo Lombardo, diventato D’Agostino il punto di riferimento del governatore nel catanese dopo la fuoriuscita di Leanza, Barbagallo è stato praticamente l’ombra e il braccio dell’onorevole acese a Palermo.

Al punto da incappare nell’unico scivolone di una campagna elettorale, altrimenti perfetta, sui ritardi nelle sedute del consiglio comunale – dove cinque anni fa approdò per la prima volta come consigliere più votato -, colpa proprio delle sue trasferte palermitane.  Il trentottenne ingegnere acese ha saputo coniugare queste caratteristiche con una facilità nel costruire e mantenere una grande popolarità personale,  figlia di un modo di fare che, se qualcuno ammiccando potrebbe definire trasversale,  in realtà è una diretta conseguenza della sua personalità: il mettersi a disposizione di chi richiede il suo aiuto e attivarsi per definire un problema, senza guardare alla tessera di partito della persona da cui proviene la richiesta.

Tutte doti che ne facevano il profilo ideale per un candidato sindaco che apparisse come nuovo e al contempo fosse espressione di un modo di fare politica, tradizionale nella impostazione e moderno nel modo di proporsi. Questa l’intuizione geniale di Nicola D’Agostino: aver messo il cappello, sin dall’estate scorsa, sul discorso portato avanti da Cambiamo Acireale, l’unico che gli offrisse l’opportunità di costruire una alleanza – indispensabile per una candidatura vincente – ma al di fuori delle logiche partitiche. E chi meglio di Cambiamo Acireale, il comitato civico promosso da Salvo Nicotra – eminenza politica acese di lungo corso, figlio dello storico segretario dell’Unione Artigiani Acesi -, si presentava funzionale a quest’operazione?

Dove poter trovare la trasversalità necessaria se non in un contenitore che metteva insieme, come membri di spicco o come semplici simpatizzanti, esponenti della famiglie Merlino, Romeo e Grassi Bertazzi da un lato (le grandi famiglie della aristocrazia e della borghesia economica acese, in parte ancora vicine a Basilio Catanoso) e il meglio del meglio dei reduci della stagione nicolosiana, come il preside Sciacca, Nando Ardita, Sebastiano Leonardi (solo omonimo del candidato sindaco) Antonio Coniglio (anche lui figlio di un importante collaboratore di Rino Nicolosi, e nipote di quell’Antonio Coniglio che fu vicinissimo a Pippo Aleppo) e Antonio Belcuore? Un movimento, civico nell’immagine e intrinsecamente politico nella impostazione, al quale potessero guardare pure esponenti storici della destra, come la famiglia Filetti (gli eredi del senatore Cristoforo, esponente storico della destra siciliana) o Gioacchino Ferlito, assessore comunale e provinciale a più riprese?

Le primarie convocate a novembre sono state l’ulteriore tassello in un mosaico che, per essere completato, doveva prendere dal centrosinistra quello che era necessario prendere: i voti. Non è un caso che alle primarie parteciperanno, insieme a Barbagallo, tre esponenti del Pd – Fichera, D’Anna e Ardita -, strappando al partito del segretario regionale acese Raciti (che dovrà riflettere a lungo sul dato politico emerso dalle elezioni nella sua città, soprattutto delle condizioni in cui è maturata) personalità capaci di esprimere un consenso personale più importante del simbolo stesso del partito. Che, tra l’altro, già di suo era stato rimaneggiato dalle fuoriuscite di esponenti storici come Cundari e La Rosa (sostenitori di Michele Alì), e di Gigi Bonaventura, consigliere uscente. Senza dimenticare Giuseppe Cicala, uscito dal partito per seguire Crocetta prima da candidato del Megafono alle elezioni regionali, poi da capo di gabinetto vicario a Palazzo d’Orleans, che deve fare i conti con il disastroso tre per cento preso dalla lista, e nessun consigliere comunale eletto.

D’Agostino ha così perfezionato una coalizione ad personam, tenendo fuori i partiti (compreso il suo, l’Udc, ad Acireale rappresentato pure da Pippo Basile e Santo Primavera, il primo da subito con Di Re, il secondo al ballottaggio dopo aver sostenuto Sebi Leonardi al primo turno) dopo averli saccheggiati dei voti e delle personalità di riferimento, mettendo a disposizione del candidato giusto nel momento giusto una perfetta macchina elettorale, dal volto civico e dalla testa eminentemente politica.

Una volta fatto il sindaco, però, bisogna amministrare. Soprattutto se le aspettative suscitate sono enormi, così come l’entusiasmo intorno alla candidatura di Barbagallo, per alcuni paragonabile solo a quello che si riuscì a costruire intorno all’ingegnere Agostino Pennisi di Floristella nel 1998. Senza dover ricordare come andò a finire quella esperienza, ciò che ci si aspetta da Roberto, come tutti lo chiamano ad Acireale, non è tanto una amministrazione che amministri: questo, in qualche modo, lo ha fatto pure Nino Garozzo, sindaco per dieci anni senza essere stato mai sfiorato da un sospetto o da un avviso di garanzia (giusto dargliene atto). Si vuole un sindaco che pensi Acireale in prospettiva, guardando ad un trascorso storico, più che importante, imponente, oggi nascosto dalla patina di una polvere accumulatasi in anni di scelte operate con il bilancino, da un lato, e il manuale Cencelli dall’altro.

Ce la farà il giovane sindaco a riportare la sua città al livello di una tradizione ormai sbiadita? E’ questa la sfida che lo attende e per affrontarla forse gli sarà d’aiuto tenere a mente le parole di Gustav Mahler, sulla tradizione. Che non è «il culto della cenere, ma la custodia del fuoco».

Luigi Pulvirenti

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