«Molti dicono “Beh, Facebook è una società privata, fanno quello che vogliono”, ma io non sono d’accordo. Non viviamo in un paese liberista allo stato brado: anche il mio lattaio è un privato, ma se trovo i topi nel latte gli mando la Guardia di Finanza»: semplice, lineare, facilmente condivisibile. Lo ha detto Alessandro Gilioli al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, durante un incontro con Daniele Sensi (L’AntiComunitarista) e Peter Ludlow (filosofo della tecnologia), moderato da Fabio Chiusi (Il Nichilista).
Quali sono i diritti degli abitanti della rete? Insomma, questi «netizen», possono davvero reclamare qualcosa? Tra profili di Facebook chiusi, account YouTube bloccati e un sacco di form da compilare, che ti rimandano indietro una risposta automatica dopo un paio d’ore dal tuo invio, la discussione si fa accesa. Forse anche grazie alla puntata di Report sull’argomento, che tante polemiche ha suscitato.
«Un paio d’anni fa cominciai a occuparmi di Radio Padania, a estrarne dei brani e a ripubblicarli su YouTube come i “Deliri di Radio Padania”: erano evidentemente critici, ma vennero segnalati come istigatori all’odio razziale. Un’altra volta pubblicai un audio in cui questi raccontavano i lati buoni del fascismo, da contrapporre alla metodologia di Marco Travaglio, che avrebbe rappresentato, invece, i suoi lati negativi. Il mio account fu sospeso per due settimane. Dicevano che facevo apologia del fascismo, che commettevo un reato, anche se io quelle cose mi ero limitato a ripubblicarle per esprimere la mia opinione contraria»: lo racconta Daniele Sensi, al quale è toccato aprire un nuovo profilo, solo per non perdere tutti i video caricati sul vecchio, che rischiava la chiusura definitiva alla terza segnalazione. «Chiesi aiuto a Gilioli, che contattò l’ufficio stampa di Google e domandò loro perché i video coi discorsi di Hitler potevano restare online e i miei commenti ai deliri leghisti no. Gli risposero che quelli erano evidentemente di denuncia, i miei no».
Gioco, partita e incontro a Google, ché tanto dà opinioni insindacabili che non prevedono alcun contraddittorio. «Eppure i diritti che dovremmo avere nel mondo virtuale dovrebbero essere gli stessi del mondo reale», interviene Ludlow, che prosegue: «Nella maggior parte dei casi, gli uomini che gestiscono i social network non hanno chissà quale background nell’ambito degli studi umanistici, quindi figuratevi se pensano alle regole fondamentali della trasparenza, che secoli di cultura ci hanno insegnato…». E le lamentele perché si è stati bannati non sortiscono alcun effetto, finiscono nel dimenticatoio, assieme ai profili bloccati e non riattivabili: «Non pensiamo che sia soltanto un gioco, ricordiamoci che molta gente spende la propria vita sociale e lavorativa interamente su Facebook. Queste cifre, peraltro, stanno aumentando in maniera vertiginosa, così come il giro di denaro che ruota loro attorno».
«Non puoi prendere una persona e dirle, all’improvviso, “Ti caccio da Facebook ma, tranquillo, puoi sempre andare su Diaspora”», spiega Gilioli. Anche perché, chi lo sa cos’è Diaspora? Quanti sono quelli che hanno ricevuto un invito per testarne la versione beta? E quanti quelli che, dopo averlo provato, non l’hanno abbandonato? «Perché l’utente medio italiano è piuttosto ignorante dal punto di vista digitale».
Proprio perché l’utente medio è ignorante, proprio perché la gente crede ancora che internet sia un Far West da conquistare, una terra di nessuno dove fare quel che si vuole, siamo davvero sicuri che una regolamentazione stringente non sia necessaria? Lo domandiamo a Gilioli, e aggiungiamo altra carne al fuoco, facendo un esempio che amplia il discorso: uno dei diritti costantemente violati sul web è il diritto d’autore, e il dito è per lo più puntato sul gruppo Espresso e, in particolare, su Repubblica.it che fa incetta di fotografie dal web senza citare chi le ha scattate. «Mi pare che si stia divagando, ma non voglio tirarmi indietro», ci risponde il giornalista e blogger. «Sul web tendono a riproporsi le dinamiche del più forte che mangia il più debole. Non è bello, ma le cose stanno cambiando. La situazione, rispetto a cinque anni fa è molto cambiata, non le pare?». «Sinceramente no». «Mi dispiace per lei. Io credo che sì, siano cambiate, invece. E trovo che il suo sia un discorso vecchio di dieci anni: ormai nessun blogger più si lamenta che i suoi contenuti vengano copiati da un giornale, e nessun giornalista si lamenta che i suoi articoli vengano ripresi sui blog». Ma controbattiamo anche a questo: «Dopo la puntata di Report sui social network, L’Unità ha pubblicato un pezzo in cui dava conto dei tweet degli utenti, sbagliando i nickname e attribuendo agli uni le dichiarazioni degli altri. La cosa non è passata inosservata, i diretti interessati l’hanno notato». A questo punto, è Sensi a dire la sua: «Lei ha citato il diritto d’autore. Ma sa che qualunque suo contenuto lei pubblichi su Facebook diventa proprietà di Facebook?». «Chiunque si iscriva a Facebook accetta delle condizioni d’uso, lì queste dinamiche sono scritte nero su bianco, se non ti va di accettarle non ti iscrivi», replichiamo.
L’ultima battuta, però, è nuovamente di Gilioli: «Io potrei proporle un contratto che preveda la schiavitù e lei potrebbe firmarlo, dunque accettarlo, però questo non significa che sia giusto».
Ripensandoci, avremmo potuto rispondere che se sostituisce la parola «schiavitù» con la parola «stage» allora – automaticamente – l’ingiustizia decade. Ma questa è un’altra storia…
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