La vita di Zeanab è costellata di scelte di libertà. A due anni i suoi genitori scappano dalla Somalia e si trasferiscono in un campo profughi in Kenia dove Zeanab cresce e studia. A 15 anni decide di spostarsi in Sudan, da sola, per cercare un lavoro e aiutare mamma, papà e i suoi 12 fratelli. A 18 sceglie, contro la volontà della sua stessa famiglia, l’uomo con cui sposarsi e rimane presto incinta. «Quando ho saputo che era una femmina – racconta a MeridioNews – ho deciso di andare in un posto dove mia figlia potesse scegliere liberamente che fare della sua vita». I soldi che ha messo da parte sono appena sufficienti per raggiungere l’Italia. Ancora contro il volere dell’uomo che ha sposato, Zeanab riparte, da sola e attraversa il deserto. Oggi, a 21 anni, vive in un condominio solidale nel Catanese e da poco è diventata affidataria di altri minori stranieri non accompagnati arrivati nel nostro Paese. «Io so di cosa hanno bisogno – dice -: una famiglia, tanto amore e dei buoni consigli».
Zeanab parla sette lingue, tra cui l’italiano e nella sua ancora breve vita ha in curriculum anche un’esperienza da mediatrice culturale per l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite. Ma, guardando indietro, la strada è stata tutta in salita. «Quando sono rimasta incinta – spiega – ho avuto paura che mia figlia, restando in Sudan, non fosse libera. Non volevo che vivesse la mia stessa situazione. Ho parlato con mio marito della possibilità di partire, ma lui mi ha risposto “Aspetta di partorire, lascia qui mia figlia e dopo vai dove vuoi”. Così ho deciso di scappare da sola, senza dirlo a nessuno». Un viaggio a tappe, comune a centinaia di migliaia di migranti che dal Corno d’Africa si spostano verso la Libia per poi raggiungere l’Italia. «A organizzare tutto il tragitto è sempre la stessa organizzazione – sottolinea Zeanab – prima ci siamo spostati in camion, poi col pick up per attraversare il deserto. Ci picchiavano, senza alcuna distinzione tra uomini e donne, nessun trattamento particolare per la mia gravidanza. Ci davano una bottiglietta d’acqua per 24 ore sotto il sole».
Nei tre mesi e mezzo di spostamenti – costati 3500 euro – la morte diventa macabra abitudine. «Se non paghi ti uccidono, ti dicono “hai bevuto tutta la nostra acqua e ancora niente soldi?”. Ma molte famiglie non riescono a mandare altro denaro. Ne ho visti morire tanti, i corpi si buttano o vengono ammassati uno sull’altro sui camion per fare da barriera al sole di giorno e al freddo di notte». Il viaggio in mare, su un gommone, dura cinque giorni. Zeanab arriva al porto di Catania nel giugno del 2014, salvata da una nave della Marina militare italiana. Non serve molto per uscire dai canali ufficiali dell’accoglienza. Per alcuni giorni rimane ospite di un connazionale, fino a quando, colta da un malore, è costretta a ricorrere all’aiuto di un’ambulanza. Il ricovero in ospedale è l’inizio di un lungo periodo di cure e di strani movimenti attorno a lei. La giovane somala partorisce la sua piccola ma non può vederla, è malata di tubercolosi, i medici le impongono di evitare ogni contatto. «Ho accettato perché non volevo fare stare male mia figlia», racconta. Intanto Zeanab si chiude in un profondo mutismo, interrotto dalle visite di qualche parente proveniente da altri Paesi europei. mentre la piccola viene affidata a una famiglia italiana che la chiama Alice. Troppa la confusione attorno alla giovane somala, connazionali che Zeanab neanche conosce si fanno avanti per provare a ottenere la bambina. Il tribunale rimane fermo nella decisione di lasciare Alice alla famiglia affidataria.
«Sono rimasta diversi mesi in ospedale – continua -, non capivo, ho anche pensato che mia figlia fosse morta. Poi, quando sono guarita, ho deciso di fare da sola. Ho detto a mia zia: “Voglio provarci senza nessun aiuto, mi fido delle istituzioni italiane”». Inizia così un percorso di formazione in cui Zeanab frequenta la scuola, studia, impara l’italiano. «Alla fine mi sono presentata in tribunale e ho raccontato tutto, dicendo di essere pronta a riprendermi mia figlia». Dopo un periodo di prova, sotto la vigile attenzione della famiglia affidataria, l’obiettivo è raggiunto. «L’ho ritrovata più grande, ho deciso di lasciarle il nome Alice e di darle il mio cognome».
Oggi Zeanab vive in provincia di Catania, in un condominio solidale gestito dall’associazione Metacometa: appartamenti in cui abitano più famiglie con diversi problemi. Tutti fanno riferimento a lei, compresi i cinque minori stranieri. «Zeanab ha rivoluzionato il mio modo di pensare – confessa Linda, una delle fondatrici dell’associazione -. Cristiani e musulmani, tutti praticanti, convivono tranquillamente e abbiamo anche trovato il modo di pregare insieme prima dei pasti». A breve altri due minori non accompagnati verranno ufficialmente dati in affidamento alla 21enne somala.
Zeanab, da dove nasce tutta questa libertà? «Da mia madre – risponde immediatamente – da piccola le raccontavo tutto, le parlavo dei miei sogni. Lei mi ha sempre aiutato a coltivarli, mi dava ragione, mi ha spinto a studiare, mi correggeva se necessario. Non la vedo da sette anni, ma lei sa che sono qui e che ho una figlia. Quando ero piccola mi piaceva molto prendermi cura dei bambini, così quando avevo qualche soldo lo portavo in moschea. Un giorno dissi a mia mamma: “Vorrei compare una casa per ospitare i bambini poveri”. Lei mi rispose: “Anche se non riuscirai mai a compare una casa, potrai sempre aiutarli con i tuoi consigli e il tuo amore”. D’altronde il Corano dice: “Se aiuti qualcuno, Dio ti aiuterà”. Oggi posso dire che mia mamma aveva proprio ragione».
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