Vita sotto protezione: «Senza il morto non c’è controllo» I mafiosi come vicini di casa e quel lavoro che non c’è

«Io non ho nessun motivo né di scappare né di nascondermi». Benito Morsicato può andare in giro a testa alta e ha deciso di farlo ricominciando dalla sua terra, quella che ha lasciato anni fa dopo aver denunciato quella stessa mafia che fino al giorno prima aveva, in qualche modo, servito. Finito in carcere nel 2014 col blitz Reset, quasi subito decide di collaborare coi magistrati. E questo, immediatamente, significa una cosa sola: cambiare vita. Come? Entrando nel programma di protezione. Che tutte queste tutele, in realtà, non sembrerebbe affatto garantirle, anzi. E questo vale tanto per lui, diventato collaboratore di giustizia, quanto per moglie e figlie, che dovranno rinunciare per sempre a ogni parvenza di normalità. «Una vita invivibile», racconta infatti Benito a MeridioNews. «Trasferimenti continui, anche nel giro di pochi mesi, e una protezione praticamente inesistente, è tutta una bufala – continua -. Mi sono visto quasi costretto a rinunciare a quel programma. Anzi, sono stato anche contento di essere tornato, a un certo punto, perché chi vuole combattere la mafia lo deve fare sul territorio, non scappando».

«Io non ho fatto nulla di male, ho aiutato lo Stato e la collettività – spiega oggi -. Sono tornato qui per alzare la voce e raccogliere sostegno». Non solo per smontare, pezzo per pezzo, tutti i falsi miti alimentati da un sistema che tutto fa meno che proteggere le persone come lui e i famigliari, ma anche per riprendersi in mano la sua vita e, soprattutto, quella dimenticata normalità. Dalla sua parte, oggi, ci sono tanti giovani studenti di Giurisprudenza, conquistati dalla sua storia di ex soldato di Cosa nostra che ha deciso di studiare una lezione di vita ben diversa. Ma anche numerosi appartenenti alle forze dell’ordine che ammirano le sue scelte, compresa quella di lasciare il programma e farcela da solo. Ma ricominciare da zero non è certo facile. Specie se, oltre a doverti guardare continuamente le spalle da quella mafia che non dimentica, devi anche supplicare per avere uno straccio di lavoro. «Oggi ho una sorveglianza attiva sotto casa, a quanto pare sono uno dei pochi fortunati. La gente onesta a Palermo c’è, questa città non è solo mafia e delinquenza come pensa qualcuno – dice -. Per questo vorrei appellarmi a qualche imprenditore perché possa assumermi, mi sta bene anche spalare letame, non ho nessun problema, so che a fine mese avrò guadagnato onestamente i miei soldi e potrò dare l’esempio alle mie figlie».

L’idea, insomma, è quella di rimanere qua, «non ho intenzione di farmi intimidire da niente e nessuno, non voglio più andare via», assicura. Malgrado quella mafia. È tornato da quattro mesi, scegliendo all’inizio di mantenere un profilo basso, restando in silenzio. «Solo che ora è davvero tempo di alzare la voce – torna a dire -. Perché sono isolato da tutto e tutti, tranne qualche rara eccezione di chi si interessa alla mia storia e mi cerca. Scrittori, giornalisti, studenti, gente comune. In tanti mi stanno dando la forza di andare avanti». Più di tutti, probabilmente, l’associazione dei Sostenitori dei testimoni e dei collaboratori di giustiziaideata da Luigi Bonaventura, e composta da tante personalità diverse. Una realtà che punta innanzitutto a fare rete tra denuncianti che si aiutano fra loro, ma anche ad aprirsi al mondo intero, facendo conoscere non solo le storie di chi compie una scelta di civiltà come la loro, ma anche tutte le paradossali falle di un sistema che fa tutto fuorché proteggere loro e le loro famiglie. «Io sono referente in Sicilia dell’associazione – spiega Benito -, mi occupo in particolare dei collaboratori qui sul territorio. Nell’associazione io ho trovato una famiglia, in tutti i sensi, ho ricevuto tantissimo sostegno psicologico, e tuttora mi stanno aiutando anche a livello amministrativo. Da quando ne faccio parte mi hanno aiutato moltissimo, standomi vicino e dimostrando grande disponibilità».

Rimettere insieme i pezzi di una vita per anni annullata non è semplice. Come non lo è, per Benito e la famiglia, dimenticare i torti subiti, specie se a firma dello Stato e cominciati già all’alba di quella scelta di vita: collaborare. «Come da rito, per i primi 180 giorni sono rimasto isolato da tutto e tutti, per parlare coi magistrati. Mentre mia moglie e le mie figlie erano sotto scorta. La stessa che, durante il trasferimento in località segreta, s’è fatta rubare tutti i nostri bagagli. Tutti i ricordi di una vita, presa e infilata dentro poche valigie, erano lì. Abbiamo perso tutto. È una cosa normale? Qualcuno avrebbe potuto anche mettere una bomba o un gps sotto alla macchina? – si domanda oggi -. Se vivi sotto protezione, è lo Stato che ti porta al punto di andartene dal programma, perché è tutta una fesseria, non funziona niente, non c’è alcuna protezione. Prima di lasciare definitivamente il programma ho fatto una cosa, a mo’ di testimonianza, di prova, insomma per testare effettivamente questa protezione: me ne sono andato a Basilea per la festa di Halloween. Come fa una persona tutelata dallo Stato e che vive in località segreta a mettersi in auto e a fare chilometri e chilometri arrivando in un altro Stato?».

Perché Benito, effettivamente, nella cittadina svizzera ci arriva, come se nulla fosse. Come si spiega? «I controlli scattano solo quando ci scappa il morto. Ma senza morto i controlli non esistono, ti prendono e ti buttano in una città nuova, ti mettono in un condominio e i condomini capiscono subito chi sei: ti vedono chiuso in casa tutto il giorno senza andare a lavoro». Se poi i vicini sono addirittura dei compaesani o, peggio, persone vicine a quei boss cui hai deciso di voltare le spalle, la situazione si complica ancora di più. Fino al ridicolo. «Un giorno, dopo già quattro trasferimenti in soli tre mesi, esco nel cortile della casa dove avevo appena messo piede. A un certo punto mi sento chiamare, “ma non sei Benito?”. Mi giro e vedo uno di Porticello che mi conosce molto bene, me lo sono ritrovato nella porta di fronte». Una circostanza che gli sarebbe capitata più volte e che getta non poche ombre sui controlli che le istituzioni compiono prima di assegnare una destinazione protetta a un collaboratore e alla sua famiglia. Ne succedono davvero tante a Benito e alla sua famiglia, a sentire il collaboratore, al punto che arriva anche a ipotizzare «un magna magna internazionale».

«E quando io da collaboratore lascio l’appartamento cosa succede? – continua -. Firmo un verbale che attesta che sto consegnando le chiavi e lasciando la casa, dopo un anno e mezzo mi arrivano tre-quattromila euro di spese tra pittura, mobili rotti, quando il verbale che ho firmato attesta che non ci sono danni. A me con questo giochetto mi hanno fregato 22mila euro della capitalizzazione. Motivo, tra i tanti, per cui me ne sono uscito e me ne sono tornato qui». Sì, perché questa è una delle possibilità cui ha diritto un collaboratore come Benito, per provare a ripartire da zero. Una possibilità salvavita, se solo funzionasse. «Ho chiesto la capitalizzazione perché ero nell’abisso, ero esasperato e non volevo stare più sotto protezione, non così. Dovevano essere circa 40mila euro, avrei potuto ricominciare un’altra vita altrove. Me l’hanno accettata, solo che pochi giorni dopo si ripresentano alla mia porta con un piano debitorio che io disconoscevo di 22mila euro di danni nelle case precedenti. Ho scritto, ho chiesto immediatamente di conoscere fatture di eventuali danni pagati ma il Ministero non mi ha mai risposto, mi ha dato un calcio nel culo e me ne ha fatto andare con 19mila euro».

Ed eccolo qui, oggi, a tentare di ricominciare. «Ho lavorato per 15 anni come operatore ecologico, ho tutte le patenti e i certificati necessari – spiega -. Durante il programma di protezione lavoravo come autista da Aprica a Brescia, l’azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti in città, ma non solo, prende tutta la Lombardia, ha diecimila dipendenti almeno, io là potevo farmi la pensione. Mentre mia moglie è stata quasi per due anni a lavorare nella sala bingo». Sembrava fatta, ma lo Stato gliene avrebbe combinata, pare, un’altra delle sue, l’ennesima. «Appena ho cominciato a lavorare pure io c’è stato un trasferimento d’urgenza. Per la mia sicurezza, hanno detto all’inizio. Ma poi ho scoperto che non pagavano l’affitto al proprietario di casa, quello voleva subito le chiavi indietro, in zona non c’erano altri appartamenti disponibili e mi hanno spostato di provincia e abbiamo perso il lavoro sia io che mia moglie. Dov’è l’inserimento lavorativo, perciò? Quello previsto dal contratto. Non solo me lo trovo io il lavoro, ma me lo fai pure perdere». Benito però insiste. Almeno all’inizio. «Mi sono trovato un altro lavoro in una cooperativa – racconta -. Mi dovevano versare il contributo, quello che mi dà lo Stato, il giorno prima di cominciare dovevano arrivarmi questi soldi, ma invece me li hanno bloccati perché avevo firmato un contratto e mi hanno lasciato così. Ho dovuto rinunciare a quel lavoro, come facevo a prenderlo senza una lira? Ad affrontare le spese giornaliere del gasolio e tutto, non mi ci sono più nemmeno presentato».

«Mi hanno rovinato. Ed è iniziato tutto da quando ho chiesto i danni al Ministero per la storia delle valigie rubate, Ministero che nega però di esserne responsabile. Intanto, oggi potrebbe accadermi qualcosa in qualunque momento. Ci sono i carabinieri sotto casa mia e per questo sono più fortunato di altri, ma se giro l’angolo mi può succedere di tutto – si sfoga -. Io non ho mai ucciso nessuno, sono stato arrestato per alcuni danneggiamenti ed estorsioni. Tutti i reati commessi li ho rivelati da me durante la collaborazione, rivelando anche cose per cui non ero indagato. Con la procura mi sono aperto a 360 gradi. Attendibile al cento per cento. Ho fatto arrestare decine di persone e fatto sequestrare 25milioni di beni. Io voglio migliorarla questa terra. Ma se le persone non alzano la testa e non parlano, se nessuno le dice queste cose, saremo sempre così».

Silvia Buffa

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