Visita al rifugio antiaereo di piazza Pretoria Le bombe alleate e le storie 73 anni dopo

Un buco nel muro nella portineria di palazzo delle Aquile. È questo l’ultimo accesso ancora in funzione per il rifugio antiaereo sotto piazza Pretoria. In pochi hanno memoria del sistema di corridoi bui che si snoda partendo dall’edificio comunale. Eppure, 73 anni fa, riusciva a dare riparo a molti cittadini quando si avvicinava la minaccia dei bombardamenti. Bombardamenti pesanti, che cambiarono il volto della città. «Gli inglesi attaccavano prevalentemente di notte, gli statunitensi anche di giorno», spiega Samuel Romeo, ricercatore dell’università palermitana, che da tre anni compie studi sull’evento comparando fonti italiane e inglesi insieme al collega francese Wilfried Rothier, mentre cammina tra i cunicoli del rifugio. «Una escalation di attacchi che si è protratta fino a metà del ’43. E come se non bastasse, a luglio sono state quattro le incursioni aeree della Luftwaffe tedesca e della Regia aeronautica».

Il rifugio, pubblico, a cui si accedeva da due ingressi – ora chiusi – posizionati vicino alle statue dei leoni, era stato progettato per offrire riparo a un massimo di duecento persone, a cui era concesso mezzo metro quadro di spazio sui sedili in pietra che sottolineano tutto il perimetro dei cunicoli.  Questo almeno ufficialmente, perché «il più delle volte, presa dal panico, la gente si accalcava e si andava ben oltre la capienza prevista». Dell’impianto di illuminazione è rimasto ben poco, l’umidità e il tempo hanno completamente ossidato le griglie che contenevano le lampadine e persino gli sportelli dell’areazione, progettati per garantire una tenuta stagna delle bocchette «perché, essendo ancora forte il ricordo della Prima guerra mondiale, quando vennero utilizzate delle bombe con gas velenosi, era stata prestata particolare attenzione all’ingresso dell’aria, che si poteva purificare attraverso un sistema di ventilazione automatica o a manovella».

Sulle pareti sono ancora ben visibili le scritte che imponevano ai rifugiati di non fumare e talvolta di non soffermarsi, ma non erano i soli divieti. «Erano vietati anche i venditori ambulanti di cibo, di cuscini e di coperte, che passavano tra la gente a vendere la propria mercanzia proprio come succede adesso allo stadio». 

Era un rifugio sicuro quello di piazza Pretoria, a differenza di molti altri ricavati in cantine o cisterne dell’acqua svuotate e rinforzate con assi di legno e sacchi di sabbia. Questo tipo di costruzione doveva essere realizzata seguendo determinati standard: in cemento armato con del basolato sopra, «il più delle volte però – continua Romeo – venivano costruiti con materiali di fortuna. Il metallo infatti era merce rara in tempo di guerra e la produzione di basolato non riusciva a soddisfare la richiesta. Spesso i ripari si accomodavano con di materiali improvvisati come selciatone, terra compressa e sacchi di sabbia, che non reggevano in caso di colpo diretto, come successo il 18 aprile del ’43, quando il ricovero pubblico di piazza Sett’Angeli è stato colpito da una bomba a detonazione ritardata di 0.25 secondi». In quell’occasione l’onda d’urto ha ucciso tutti gli occupanti. «Le fonti parlano di 30 morti, ma non si conosce il numero esatto delle vittime, molte delle quali sono rimaste sepolte sotto le macerie». 

Quelle di piazza Sett’Angeli non sono le uniche vittime civili di raid aerei. «Il 9 maggio (data scelta per ricordare l’anniversario delle bombe su Palermo, ndr) un bombardamento compiuto da 413 aerei statunitensi e britannici in dodici ondate ha causato 341 vittime. Poche se proporzionate al tipo di attacco. Sono cadute 449 tonnellate di bombe tra cui due ordigni inglesi modello blockbuster da quattromila libbre in grado di radere al suolo un intero quartiere, sganciate su Boccadifalco a conclusione dell’attacco sulla zona dell’aeroporto».

Perché Palermo e la Sicilia «sono state utilizzate per vere e proprie prove tecniche d’attacco. Per la prima volta gli eserciti alleati hanno fatto dei bombardamenti a tappeto su una città, hanno sperimentato armi e tattiche. Il bombardamento delle linee ferroviarie, per esempio, è stato un training delle forze aeree alleate in vista dello sbarco in Normandia che sarebbe avvenuto pochi giorni dopo». Una storia terribile di cui la città, a 73 anni di distanza, porta ancora visibili le cicatrici. Per vederle basta inoltrarsi nel centro storico, alla Vucciria, all’Albergheria e in altre zone in cui la distruzione delle bombe e la mancata ricostruzione raccontano ancora di un periodo dimenticato, come il rifugio di piazza Pretoria, ma ancora presente e doloroso.

Gabriele Ruggieri

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