Violenza sulle donne, quando a combatterla sono gli uomini «Consapevoli dei privilegi che ci dà una società maschilista»

«Quando si parla di violenza sulle donne gli uomini pensano spesso che il problema non li riguardi. Ma dal nostro punto di vista il problema può riguardare tutti. Perché noi colleghiamo la violenza contro le donne a un modello culturale patriarcale e maschilista, di cui un po’ tutti noi in quanto maschi siamo assorbiti. Nelle nostre relazioni familiari, con la nostra compagna o con la collega di lavoro, usufruiamo dei privilegi che derivano da questo modello». Autoconsapevolezza è la parola che più volte pronunciano. E non è un caso, a sentire le parole del coordinatore Francesco Seminara. Noi uomini a Palermo è un gruppo di persone che ha scelto da tre anni di impegnarsi contro la violenza sulle donne. Consapevoli, dunque, della propria identità sociale e con la volontà di non lasciare il tema esclusivamente alle donne. Proprio perché vogliono ribaltare la prospettiva che vede la violenza – o, peggio ancora il femminicidio – come una cosa da donne

E chi sono questi uomini che hanno scelto di costituirsi in un’associazione per perseguire i propri scopi, in un modello che da Roma in giù li vede come gli unici esponenti della rete maschile plurale? Sono docenti, metalmeccanici, pensionati. Che si riuniscono ogni 15 giorni presso la Casa dell’equità e della bellezza, in via Garzilli. Inoltre vantano un proprio sito internet, un gruppo facebook e collegamenti in tutta Italia. Nel capoluogo siciliano il gruppo attualmente è costituito da sette persone, non tanto perché c’è poca sensibilità quanto perché, come afferma Seminara, «la difficoltà maggiore è trovare altri uomini che vogliano dedicare il proprio tempo a questo tema». L’idea fondante è dunque che siano gli uomini a occuparsi di violenza sulle donne, attraverso attività di sensibilizzazione e campagne di prevenzione rivolte ai giovani e agli adulti. E anche alle donne, perché come ricorda il professore Augusto Cavadi, «madri e mogli spesso accettano e perpetuano questa mentalità maschilista. Noi spesso ci sentiamo dire spesso dagli studenti che a “casa mia comanda mia madre». Una excusatio non petita che è già un’implicita ammissione: perché suona tanto di concessione maschile, e perché in ogni caso i rapporti di forza vanno rovesciati, non assecondati. «Ci sono donne – aggiunge Seminara – che fanno il ruolo del maschio, ma questo non cambia i termini del problema perché cambia il ruolo ma il modello rimane uguale». 

Ecco dunque spiegata la scelta di creare un gruppo esclusivamente maschile. «L’idea è nata agli inizi del 2016 – racconta il coordinatore del gruppo palermitano – attraverso lo stimolo e la sollecitazione di alcune amiche femministe che fanno parte dei centri antiviolenza palermitani. Ci siamo resi conto, insieme a loro, che in altre città c’erano già gruppi costituiti da soli uomini. Abbiamo dunque cominciato a cercare persone che potessero essere interessate al tema: non è stato facile e non lo è tuttora. Nella prima fase abbiamo realizzato alcuni dibattiti pubblici, soprattutto per farci conoscere». 

Ma perché c’è tutta questa diffidenza ad avvicinarsi a un gruppo in fondo costituito da soli uomini? «Si pensa che la violenza sulle donne – dice Giuseppe Consoli – venga effettuata solamente da disturbati mentali o da delinquenti. Io sono normale, ci si dice, per cui a me non può capitare». Un pensiero che in effetti scatta, sempre come meccanismo di autodifesa e di solito incentivato dai casi di cronaca nera più efferati che vengono riportati dai media. «Invece non è vero – continua Consoli – le cronache sono piene di casi in cui a usare violenza sono uomini cosiddetti normali. E soprattutto non c’è solo la violenza fisica». Seminara aggiunge che «la rappresentazione dell’uomo violento in quanto patologico è legata a un certo modo del racconto del femminicidio che si fa in Italia. Poi se si scava all’interno del problema si scopre che di patologico c’è poco in questi uomini, che spesso invece sono vittime di un sistema patriarcale che fa scattare questi momenti di rabbia estrema. In ogni caso c’è un’ampia casistica in cui non si arriva al femminicidio ma che parla comunque di percosse». 

Non solo, però, perché i tipi di violenza che l’uomo effettua verso la donna sono appunto spesso interiorizzati. Ma comunque presenti e nocivi. «C’è la violenza psicologica, che si mette in atto quando si svilisce e si tende a sminuire il ruolo della donna, con comportamenti ritenuti innocui e che la fanno sentire inferiore. C’è la violenza economica perché ancora troppo spesso è l’uomo a guadagnare o di più rispetto alla donna o addirittura da solo in un contesto familiare. E col potere del denaro tiene legata a sè la donna». Nel caso del gruppo Noi uomini a Palermo si parte invece da maschi consapevoli e disposti a mettersi in gioco attraverso un’autoanalisi che continua ancora ora, a distanza di oltre due anni dalla costituzione del gruppo. «Per noi è un processo molto importante – spiega Consoli – e abbiamo continuato a farla anche quando abbiamo avviato le attività esterne, proprio per avere gli strumenti per comunicare con gli altri. Questa autoconsapevolezza maschile, come la chiamiamo noi, serve a noi per crescere personalmente e in quanto formatori sugli altri uomini». 

Esiste certamente una difficoltà dell’essere umano, uomo o donna, a mettersi in discussione. «Le difficoltà vengono proprio quando si parla di sè – ammette Consoli – ma è lo stesso percorso che hanno seguito le femministe negli anni ’60 e ’70». In questi due anni il gruppo Noi Uomini a Palermo ha portato le proprie tematiche in una decina di scuole. L’attività di sensibilizzazione è ormai ben definita: si parte da una mostra fotografica che viene lasciata presso gli istituti, senza spiegazioni, per qualche settimana. Fumetti e quadri, realizzati dalla rete nazionale maschile plurale, incentrati su scene di vita quotidiana su cui spesso, e inconsapevolmente, si riversano le differenze di genere. E che invece nella mostra vedono protagonisti scambi all’insegna dell’ascolto e della condivisione. Per esempio in una scena c’è una donna che comunica al proprio compagno di aver trovato un lavoro in Svizzera e di voler accettare l’incarico; in questo caso la reazione dell’uomo non è quella, scontata, di colui che si sente abbandonato ma afferma che è una notizia interessante e che intende supportarla. 

Come a dire che un potenziale momento di conflittualità si può disinnescare o comunque affrontare meglio se si hanno a disposizione strumenti come l’empatia. Dopo di che, dopo aver sedimentato messaggi, arriva il gruppo a discuterne con gli studenti e le studentesse, attraverso inoltre alcuni video e cortometraggi. «Non ci mettiamo insomma a fare i moralisti – spiega Seminara – sul perché la violenza maschile è brutta e cattiva o sulle pene da attuare. Intanto bisogna capire le cause e i legami di questa violenza con quello che è il substrato sociale e culturale. E da lì individuare delle strategie di comunicazione efficaci. Noi abbiamo optato per l’individuazione dei comportamenti alternativi. Stiamo pensando comunque a metodologie differenti, per esempio con delle drammatizzazioni che permettano una maggiore interazione».

Il gruppo ha provato anche a rivolgersi verso altre realtà. Ad esempio ha avuto il professore Augusto Cavadi ha avuto un incontro con la Fiom e un altro con la Cgil di Ragusa, ma ha trovato «il sindacato un ambiente altamente maschilista, e che sottovaluta il problema». Eppure le statistiche stanno lì a dimostrare il contrario: in Italia c’è un femminicidio ogni tre giorni. Ma qual è la reazione delle donne di fronte questa iniziativa esclusivamente fatta da uomini? «C’è una leggera diffidenza – ammette Seminara – nel senso che c’è un rapporto da costruire. Le donne non credono di solito che gli uomini siano capaci di prendere in carico un tema del genere che le riguarda così fortemente». 

Andrea Turco

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