Violenza di genere e quelle donne che odiano le donne «Quello che ho denunciato per loro era protagonismo»

«Le donne? Se ne fregano. Dalla maggior parte delle mie vicine e concittadine di Bagheria non ho mai ricevuto empatia, solidarietà o un sostegno di qualche tipo, dicono tutte che lo faccio per protagonismo». Chissà se queste donne le hanno viste le foto, ormai rese note da tempo dalla stessa Lidia Vivoli, della sua camera da letto completamente sporca di sangue, dopo quella notte in cui è quasi morta. E a tentare di ucciderla è stato quello che da dieci mesi era il suo compagno. Si erano addormentati abbracciati, quella notte del 24 agosto di ormai sei anni fa, quando all’improvviso lui era tornato dal bagno armato di una piastra in ghisa, che si è rotta sulla testa di Lidia. Calci, pugni, squarci con le forbici e un tentativo di strangolamento si protraggono per tre ore, prima che lui fugga via e lei venga soccorsa. Una storia che ha fatto molto discutere, che ha suscitato impressione e indignazione, soprattutto per la decisione coraggiosa della donna di parlarne anche pubblicamente. Per denunciare, per sensibilizzare.

Una storia che malgrado la sua brutalità, però, non sembra oggi toccare proprio tutti. Donne incluse, quelle che forse più di ogni altro dovrebbero manifestare un atteggiamento diverso e di apertura verso vicende simili. Perché, i dati annuali parlano chiaro, hanno sempre più spesso per protagoniste proprio le donne. Motivo per cui è stato necessario coniare un termine ad hoc per indicare le aggressioni di un uomo, spesso un compagno o un ex partner, nei confronti di una donna: femminicidio. «Io non devo dimostrare nulla a queste persone», osserva Lidia, che in questi sei anni non ha mai smesso di raccontare quanto le sia accaduto quella notte, e anche dopo. Sorprende, però, che tra i suoi tanti detrattori ci siano anche delle donne. Spia del fatto che forse del fenomeno “violenza sulle donne” ci sia anche un altro versante, un altro aspetto che raramente emerge. E che anzi è anche difficile farsi raccontare da associazioni e realtà che si occupano del tema da vicino e che quasi non vogliono che si racconti. Non in questo preciso momento storico, almeno.

Per qualcuno non esiste un’altra chiave di lettura del fenomeno, un altro punto di vista. Ce n’è uno e uno soltanto, quello che manifesta (giustamente) a gran voce per le strade contro uno Stato patriarcale e un governo che rischia di farci tornare indietro di anni luce col ddl Pillon, che sembra quasi puntare a smantellare la legge sul divorzio e il diritto di famiglia; quello che manifesta contro i medici obiettori, contro la strumentalizzazione dei figli, contro i Family day e ogni azione che metta a rischio i diritti di tutti. Cos’è allora quel «se l’è cercata» scritto, detto o solo pensato dalle tante Giulia, Federica, Marta, Sara? Cos’è, se non ulteriore, gratuita violenza sulle donne? «Vittimizzazione secondaria», ci spiega Maria Grazia Patronaggio, presidente della onlus Le Onde, uno dei primi centri antiviolenza nato in Italia e che quest’anno festeggia vent’anni di attività. «La violenza che subisce una donna quando non viene creduta, perché sostanzialmente si tratta di questo, avviene nelle aule dei tribunali quando lei dice di essere vittima di maltrattamenti e lì tra avvocati difensori e giudice si mette in dubbio la sua parola. Poi subentrano i servizi sociali, e anche lì per proteggere il diritto di visita del padre succede di mettere in dubbio che la madre abbia vissuto davvero situazioni gravi di violenza».

Succede, quindi, che una donna subisca una prima forma di violenza – fisica, psicologica, economica -, e che poi subisca ancora. Subisce due volte, insomma. «La formazione che noi facciamo agli operatori serve non solo per fornire loro le competenze necessarie per riconoscere il fenomeno e la domanda di aiuto; ma serve anche ad avere uno sguardo diverso rispetto alle donne e ad evitare che queste vengano vittimizzate di nuovo», aggiunge Patronaggio. Che tira in ballo l’ormai famoso movimento me too nato oltreoceano, dopo le denunce pubbliche di Asia Argento contro il produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein, che l’avrebbe molestata. Lei e tante, tantissime altre, a giudicare dalle storie emerse dopo il suo racconto. Anche se a casa nostra il caso Asia non è stato recepito ovunque come altrove, e non sono mancati i commenti di chi, specie in rete, ha denigrato la stessa vittima. Non si contano le donne che l’hanno, in qualche modo, giudicata e condannata a prescindere, solo perché si trattava di lei.

Motivo per cui qui il movimento di reazione americano ha assunto connotazioni diverse: «Qui Asia Argento è stata vittimizzata, perché è stata accusata di dire il falso: “non era vero, lei ci stava, era connivente”, quindi ha subito di nuovo violenza – spiega ancora Patronaggio -. Ecco perché a seguito del me too i centri antiviolenza italiani hanno deciso di mandare avanti un’altra campagna, quella dell’io ti credo». Ma cosa significa tutto questo? «È un aspetto reale, che esiste e dimostra che la violenza contro le donne è un fatto culturale e trasversale. Si parte spesso dal presupposto che in quanto donna le altre debbano crederti, perché donne anche loro. Ma anche noi siamo dentro questo sistema patriarcale, quindi in un certo immaginario la donna è calcolatrice, profittatrice, è un sistema che condiziona mentalmente chiunque, quindi ci vuole un certo percorso per arrivare a leggere effettivamente la violenza. I social poi amplificano tutto a dismisura, specie gli aspetti negativi». Ci sono persino donne che in rete in questo momento se la stanno prendendo con la 23enne Silvia Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya; Gianna, ad esempio, da dietro allo schermo del suo pc si chiede se «questa non aveva (visto che viene da Milano) da fare come “crocerossina…” Per esempio a #Quartoggiaro ?…E adesso “io pago” per riportarla a casa…Sempre se non l’hanno già uccisa».

Allarghiamo lo sguardo al mondo, suggerisce infine Patronaggio: cosa vediamo? Stupri di guerra, torture e abusi ripetuti nei campi di concentramento libici, infibulazione, ragazzine vendute, spose bambine. «Non possiamo mentire sul fatto che il fenomeno esiste – quello trasversale della violenza sulle donne, che ha tanti declinazioni -. Il “se l’è cercata” è un tormentone che salta sempre fuori in questi casi, mentre non si sente dire mai per i casi di furto: se ti rubano a casa nessuno viene a dirti che te la sei cercata perché hai lasciato la finestra aperta. Per le donne invece c’è questo retropensiero che la responsabilità comunque sia tua perché donna, e questo è aberrante».

Silvia Buffa

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