«In realtà non è un film mio, o meglio, è mio fino ad un certo punto. Ero spettatore anche mentre lo giravo. Per esempio, Gaspare Cucinella voleva davvero fare il ballerino di tip tap e Scaldati non gliel’ha mai fatto fare nelle sue opere e quindi si è rifatto in questo film. Anche Vincenzo Albanese è stato libero di ispirarsi al suo mestiere di infermiere del manicomio». Così parla il regista siciliano Pasquale Scimeca del suo docufilm Il Cavaliere Sole, che parteciperà il 4 settembre alla 66a edizione del Festival del cinema di Venezia nella sezione autonoma Giornate degli autori-Venice Days, promossa dalle associazioni dei registi italiani ANAC e 100 Autori e dedicata al cinema indipendente. «È un film sulla poesia e sulla follia», aggiunge il regista. «La follia che non ha più posto in questo mondo che tenta sempre di escluderla, che ha in sé bellezza e poesia, la follia che è anche arte, che è l’essere al di fuori dalla società. I personaggi sono infatti al di fuori della società del consumismo e a loro rimane solo il luogo del teatro che è un non luogo. Anzi è il luogo della creazione, dove tutto è permesso, dove la diversità non viene condannata né emarginata. È anche un luogo di disperazione però. Il film mi diverte, ma mi lascia anche una certa malinconia».
L’opera è nata nel 2008 da un progetto promosso dalla Regione Siciliana e ha usufruito dei fondi della comunità europea destinati a documentari di creazione su argomento siciliano. Tutto questo non sarebbe bastato, però, senza la collaborazione di Franco Scaldati che aveva messo in scena negli anni ottanta Il Cavaliere Sole, un’antica favola popolare il cui nome completo è Il Cavaliere Sole alla ricerca del paese dove non si muore mai, ripresa anche da Calvino. «Gli anni ottanta erano anni importanti per il teatro, perché era un periodo di sperimentazione, quello del teatro d’avanguardia che si faceva nelle cantine – dice Scimeca – Noi però dovevamo fare un documentario che doveva raccontare la Sicilia, quella del mito e della natura, e allora ci siamo dovuti inventare qualcosa che ci permettesse di far entrare la rappresentazione teatrale di Scaldati all’interno del progetto documentaristico. Così è venuta fuori l’idea del viaggio, che è il viaggio di Scaldati attraverso la Sicilia alla ricerca dei suoi vecchi attori, con i quali rimettere in scena Il Cavaliere Sole».
Scaldati aveva, ed ha ancora oggi, la caratteristica di lavorare sempre con gli stessi attori non professionisti, come Gaspare Cucinella che nella vita faceva il postino. Durante il suo itinerario il regista non solo incontra i suoi attori ma anche altri personaggi, come Vincenzo Albanese, Rosso Malpelo e Raffaella Esposito che nel film è la madre di Vittorini, perché questo viaggio è sì un viaggio reale nella Sicilia dei giorni nostri, ma anche un viaggio attraverso il mito e la letteratura siciliana di due grandi autori che Scimeca ama molto: Verga e Vittorini.
Anche lui, autore di film come Rosso Malpelo e Placido Rizzotto e di documentari come L’altra Sicilia e Paolo Borsellino, ama lavorare con gli stessi attori come fa Scaldati, in parte professionisti e in parte no. «In effetti la distinzione attori-non attori è un po’ arbitraria e non credo che significhi molto – afferma il regista. Per me il lavoro di attore è più la possibilità che ha un artista di mettersi in gioco direttamente con il suo corpo, con la sua voce e soprattutto con la sua anima. Oggi si tende a far diventare il cinema un prodotto di consumo, ma per me è soprattutto arte e quindi l’attore in questa composizione artistica assume ed ha un ruolo determinante».
«Io lavoro con le stesse persone – spiega Scimeca – in primo luogo perché si crea un rapporto, un sentimento che ti unisce che va al di là dell’opera d’arte stessa, un qualcosa che ha a che fare con l’amicizia, e poi perché sono convinto che quando uno fa cinema, o qualsiasi cosa faccia, in realtà fa sempre la stessa cosa. Cioè, i film non sono mai un’opera finita a se stante: per me ogni mio film, e spero che anche gli altri lo possano vedere così, è un capitolo di un’unica opera. Quindi, l’utilizzo degli stessi attori simboleggia questa continuità, che in questo film è ancora più esplicita in quanto non ritornano solo gli attori ma anche i personaggi. Si concretizza così la mia idea di cinema, che non è neanche un’idea nuova, era così anche per Pasolini per esempio».
Oltre ai personaggi interpretati dagli attori di Scaldati e Scimeca, c’è un altro protagonista dell’opera: il paesaggio siciliano. Alla domanda se ci sia o no bisogno di dare qualche indicazione allo spettatore a riguardo, il regista risponde negativamente: «Non credo sia importante riconoscere i luoghi, la cosa importante è che abbiamo attraversato tutta la Sicilia, da Palermo a Catania, da Siracusa all’Etna, passando per paesi come Vizzini e Niscemi. All’inizio non avevamo un’idea precisa di come si sarebbe svolto questo viaggio. Ci siamo lasciati trasportare da ciò che ci affascinava».
Ciò che della Sicilia affascina Scimeca è il convivere di modernità e di postmoderno con elementi di arcaicità. E in questo puzzle ci sono pezzi che affascinano e altri che sgomentano: «Ci sono alcuni luoghi che ci hanno particolarmente colpito e che abbiamo filmato con attenzione, per esempio le valli piene di pale eoliche che ci hanno molto ricordato don Chisciotte. Di fronte a queste opere, che in realtà sono anch’esse arte, abbiamo provato uno sgomento iniziale, ma alla fine ci siamo resi conto che esercitano anche un certo fascino. Sgomento ci hanno suscitato le raffinerie di Gela, che danno vita ad un paesaggio in cui sembra quasi di essere su Marte, e di cui purtroppo il cinema non riesce a rendere l’odore. Ci hanno colpito, per esempio, le viuzze di Vizzini, le piazze e quel capolavoro della natura che è l’Etna. Il film è un viaggio che ti riporta al mare, alla terra, al passato ma anche in un luogo extraterreste, e cioè nella Sicilia del nostro tempo che un visitatore può incontrare lungo le autostrade».
Scimeca non tralascia particolari importanti sulla genesi dell’opera: «Mi piaceva l’idea del viaggio in treno, che ricorda un po’ il far west, attraverso il paesaggio di questo ‘continente’, come lo chiamava Sciascia. La fotografia straordinaria è merito anche della natura, come nella scena dei crateri dove la luce cambiava in continuazione grazie alle nuvole. Abbiamo tagliato fuori qualsiasi luogo che è icona della Sicilia. Ci siamo lasciati andare alle cose che succedevano e ciò si vede anche dai suoni. Non c’è una ricerca, ho girato in modo quasi causale».
Anche sulla scelta della lingua Scimeca si è lasciato guidare. In realtà l’idea iniziale era di usare l’italiano, ma Scaldati gli ha in qualche modo imposto di scegliere il dialetto: «Addirittura voleva spingere la nostra Raffaella, che è catanese, a parlare con l’accento palermitano e le faceva notare tutte le differenze. Io non ero per il dialetto, perché in fondo credo che il dialetto vero e proprio non esista quasi più: forse mi sbaglio, ma mi sembra uno strumento superato. Alla fine abbiamo deciso di sottostare all’‘imposizione’. Forse è anche meglio per il film, è un elemento poetico che evoca i quartieri popolari di Palermo dai quali Scaldati attinge per la sua poesia».
Alla poesia del dialetto si dà voce anche attraverso l’uso della canzone popolare nel canto della ragazza di Malpelo, che si alterna alla musica tecno ascoltata e ballata dai due adolescenti del film, in un miscuglio che caratterizza, secondo il regista, i ragazzi dei quartieri popolari che ascoltano la musica da discoteca e quella napoletana. La colonna sonora è tutta intradiegetica, tranne in un momento in cui si sente della musica country che ricorda l’amore per l’America di Vittorini. Nel film – in dolby stereo – la Sicilia non solo si vede, ma si sente, attraverso il rumore del vento e della natura che sono la vera colonna sonora dell’opera di Scimeca, un documentario pieno di spunti sociali e culturali che finalmente a Venezia avrà il giusto spazio.
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