Viaggio nel degrado del Parco Gioeni Zona franca per vandali, rifugio per disperati

«Qua una volta crescevano le olive. Tonde, buone da mangiare», dice un uomo, unendo i polpastrelli della mano destra come se le toccasse ancora, mentre passeggia nel viale principale del parco Gioeni, inaugurato negli anni novanta dal sindaco Enzo Bianco al suo primo mandato, come dice un mattone davanti a un ingresso, su cui un dito ha scritto, sul cemento fresco e con la prima lettera minuscola, ebianco. Camminiamo sino a una placca dorata ormai unta e ossidata, messa lì nel 1998 da un fantomatico assessorato alla Dignità che recita in italiano e inglese: «Catania città di Pace». Poi l’uomo fa un fischio verso un albero in fondo, urla un nome straniero. Dalla vegetazione incolta non esce nulla, ma si intravede un ombrellone, una giacca appesa a un albero, una griglia di fortuna con della carbonella bruciata, delle scarpe ammassate ai piedi di un tronco. Un bivacco. «Sarà fuori, i vigili lo sanno, ma è innocuo e lo lasciano stare. È albanese o rumeno».

Agli ingressi dei cartelli dicono di fare attenzione alle telecamere di videosorveglianza presenti nell’intero parco, «Le hanno rubate un anno fa, ne sono rimaste solo due, all’ingresso di via Pietra dell’Ova e di via del Bosco. Le hanno strappate dai pali, ma i pali sono alti, dunque saranno arrivati con una scala molto alta. Se di notte entri dall’ingresso principale, o dal cancello di via Castelluccio, o scavalchi la ringhiera da via Ferrarotto, non ti può più vedere nessuno. Tra l’altro- prosegue l’uomo – a parte il viale centrale, negli altri vialetti piastrellati le luci sono fuori uso da almeno un anno. Quando escono i ragazzi del liceo Agrario, che è qui vicino, fanno un macello: spesso fanno a gara per chi rompe di più. I tubi dell’impianto di irrigazione sono scomparsi, o rotti o mangiati dai cani. D’altra parte non vedo mai un giardiniere né uno spazzino. Vengono a pulire solamente se qui organizzano un incontro politico».

Dai sentieri in terra si dipartono dei vialetti, infilandosi nella boscaglia. Tra cartacce e buste di plastica alcuni conducono a delle bambinopoli sporche, con altalene smozzicate dai cani e scivoli vandalizzati, altri, apparentemente molto battuti, entrano tra pale di fico d’india e muri a secco, le cui pietre smosse formano un passaggio: ancora bivacchi di fortuna, un sacco a pelo, un lenzuolo, bottiglie di birra, dei giocattoli e un Pinocchio senza braccia. Le fontanelle sono tutte fuori uso, ad eccezione di quella rimasta accanto al campo da basket. Ancora zampilla faticosamente dell’acqua tra plastica ed erbacce. Il campo di basket ha un pezzo di ferro piegato in alto al posto del canestro e dei massi disposti intorno, caduti dalla collina in alto, col risultato che nessuno vi gioca. «I vigili non ci sono mai. Io li vedo solo quando chiudono i cancelli alle otto. Mi hanno detto che a volte stanno solo davanti a bagni pubblici, ma io non ne ho mai incontrato uno, nemmeno per caso», mi dice un ragazzo, che gioca a pallone con gli amici nello spiazzo centrale con delle mezze colonne palladiane lasciate lì, come denti cariati e spezzati. «Fino a pochi anni fa qui si poteva stare anche di sera, fino alle undici. Le luci funzionavano. Adesso è tutto rotto».

«C’è un recinto lì su, l’hanno costruito per i cani, ma molti si spaventano che il proprio cane lì dentro possa litigare con un altro, allora ecco che defecano ovunque. Una volta qui giocavamo a nascondino, ora per via delle feci è impossibile. Hanno tolto le siringhe, perchè qui si drogavano, ma è tutto sporco lo stesso». Poi mi indica una casa diroccata, a lato dello spiazzo: «E’ un vecchio mulino. Forse ci abita della gente, noi non ci andiamo mai». Un sentiero e tre scalini portano al casolare abbandonato. Su quel che resta del pavimento ci sono le tegole del tetto, dei graffiti sulle pareti, e dietro un parete un sacco a pelo, dei preservativi, feci umane. Un cuore di tenebra.

giuseppescata

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