Viaggio al termine della Dittatura

“Nothing please, nothing please”. Ripetevano tutti la stessa frase i negozianti del mercato Bogyoke di Yangon mentre il 19 agosto, primo giorno di proteste, chiudevano velocemente le serrande e scappavano via. Il modo più gentile – carattere che contraddistingue ogni donna e uomo birmano – per chiedere ai turisti stranieri di non fare domande in quel momento: erano 20 anni che nel paese non c’erano manifestazioni contro il regime come quelle scoppiate quest’estate in diverse città della Birmania (o Myanmar, come i militari hanno ribattezzato il paese). E il ricordo della repressione del 1988, quando i generali salirono al potere, è ancora vivissimo.
 

 Tremila uccisi in sei settimane “Per noi birmani – racconta Myo, un ragazzo poco più che ventenne che lavora per resort di lusso sulle isole tailandesi – l’agosto 1988, quando vennero ammazzate oltre 3mila persone in piazza nell’arco di sei settimane, non può essere dimenticato. Siamo rimasti terrorizzati, ed è molto difficile superare la paura”. Myo ha lasciato la Birmania, un piccolo villaggio a sud di Yangon, sette anni fa, in cerca di un lavoro. Ma ora ha deciso di tornare nel suo paese, dove vivono la mamma e la sorella. “Perché adesso forse qualcosa cambia”, dice, e perché vivere in Tailandia non gli piace, gli manca perfino il longy, il tessuto a quadretti che gli uomini birmani (esclusi i militari e qualche giovanissimo che preferisce i jeans) portano annodato alla vita al posto dei pantaloni. Myo sa tutto del suo paese: lavori forzati, povertà, violenze, corruzione. Dalla Tailandia, infatti, riesce a navigare su internet e si documenta più che può. Pensa anche che il regime sia in difficoltà: da qualche mese, infatti, la capitale, e tutti i poteri, sono stati spostati da Yangon a Pynmana, un agglomerato di nuovissimi edifici costruiti in mezzo alla foresta, a metà strada tra l’ex capitale e Mandalay. Un segno che il regime sta vacillando: ogni volta che perde saldezza stringe la morsa e si isola di più. Come Myo, tanti birmani scappati per trovare un lavoro, verso la Cina o la Tailandia, guardano da fuori il loro paese, con l’idea (e qualche dollaro in più) di tornare e fare qualcosa. In Tailandia sono molte le associazioni di birmani emigrati impegnate a fare pressioni sul regime e anche sul governo tailandese: “tante idee e buona volontà – spiega Myo – ma purtroppo non si riesce a fare molto di concreto”.
 

 Un Paese agli arresti Sui quotidiani governativi – unici organi di informazione autorizzati – la giunta birmana accusa i “gruppi esterni” e “i dissidenti all’estero” di fomentare le dimostrazioni contro il regime e il rincaro del prezzo della benzina, in corso ormai da diverse settimane (nell’88 la scintilla era stata l’aumento del prezzo del riso). Cortei che nascono quasi improvvisati, di qualche decina di persone, ma che attirano applausi e l’appoggio immediato della gente. “Il governo – hanno scritto i quotidiani ufficiali il 7 settembre – possiede informazioni secondo le quali gruppi anti-governativi dall’estero stanno fornendo direttive e ogni sorta di assistenza ai gruppi anti-governativi interni per alimentare le dimostrazioni e l’instabilità. La popolazione non lo accetterà”. La popolazione, invece, non ha mai smesso di tenere vive le idee di democrazia, in oltre 40 anni di dittatura e isolamento (prima con la “via birmana al socialismo”, poi con il regime militare). Non solo seguendo a centinaia, da dietro il cancello della sua casa di Yangon i discorsi della Lady. I birmani chiamano così, pronunciando sotto voce il suo nome, Aung San Suu Kyi, leader della National League for Democracy (Ndl), premio Nobel per la pace nel 1991 e agli arresti domiciliari dal 2003 (l’ennesima volta da quando, vinte le elezioni del 1990, non le venne riconosciuta la leadership del paese). Già prima che cominciassero le proteste di queste settimane, era stata inasprita la sorveglianza ad Aung San Suu Kyi: divieto di incontrare i suoi simpatizzanti di fronte al cancello o alle finestre di casa, come succedeva da molti anni ogni domenica, e la minaccia di dichiarare illegale la sua formazione.
 

 Isolati dal mondo “Durante questa lunga dittatura – racconta U Tint, professore di inglese in una scuola di Mandalay che ogni giorno, al tramonto, sale a piedi in cima alla collina della città per mantenersi in forma ed esercitare il suo inglese con gli stranieri – la speranza e l’impegno per la democrazia non si sono mai interrotti. Come? Continuando a parlare, a discutere, a fare girare le idee, i pensieri. Non ci siamo mai fermati”. Anche se sono puniti gli assembramenti in pubblico con più di cinque persone e, nelle città più grandi, c’è una sorta di amministratore in ogni quartiere che controlla tutti gli abitanti. Ogni persona è costretta, se non vuole finire nei guai, a denunciare gli ospiti – parenti o amici – che dormono a casa propria; nomi che vengono rigorosamente annotati su di un registro. “Non è facile qui scendere in piazza, come accade in Italia e in Europa – prosegue U Tint -, ma qualcosa si muove. In questo momento più che mai chiediamo all’Occidente di non lasciarci isolati. L’embargo di Usa e Unione europea nei nostri confronti non serve a nulla: con la Birmania, infatti, commerciano liberamente Cina, Giappone, Tailandia, Australia. Questo è un paese dove non manca niente: petrolio, legname pregiato, pietre preziose, risorse naturali, ma ad arricchirsi sono solo i generali, alle spalle di tutti noi cittadini. Raccontate come si vive qui, qual è la situazione e venite, anche solo come turisti, il più possibile”. La ragione di vita di U Tint è quella di tenere vivo il pensiero e il senso critico nei suoi studenti. Per combattere l’isolamento, prima di tutto, il peggiore male di un paese che ha uno degli eserciti più numerosi di tutto il mondo (400mila soldati per 56milioni di abitanti), in cui la maggior parte della popolazione vive nelle campagne con meno di un euro al giorno, e la mortalità infantile tocca il 7 percento. Un isolamento imposto dalla giunta, che limita più possibile gli spostamenti delle persone lasciando strade dissestate e ferrovie vecchissime, che vieta l’intervento di Ong occidentali per programmi di sviluppo, che censura gli organi di informazione.
 

 Grazie al web Qualcosa si sta muovendo anche in Birmania. Accedere alla rete rimane molto difficile, non solo per la lentezza delle connessioni, ma anche perché molti siti (tra i quali g-mail, yahoo, hotmail) non si visualizzano nemmeno. Aggirare le censure sulla rete, però, non è difficile come nel mondo reale: tutti i ragazzi che gestiscono gli internet point conoscono indirizzi “pirata” per entrare in ogni sito oscurato dai server. Ed è proprio dal mondo virtuale che qualche notizia sulle manifestazioni di questi giorni (estese dal Sud del paese fino a Mandalay), qualche fotografia e qualche video sono usciti dalle frontiere blindate del Myanmar, scappate dal controllo del regime: oltre 150 arresti, tra cui numerosi leader del movimento pro-democrazia, gruppi di picchiatori mescolati ai passanti che reprimono con violenza le proteste, rivolte dei monaci buddisti sedate dai militari con armi da fuoco, come riporta il sito internet Democratic voice of Burma (Dvb), che ha sede in Norvegia ed è animato da un gruppo di dissidenti in esilio. Una forza nuova, secondo molti birmani, che “speriamo, questa volta, ci metta al riparo da un altro 1988”, dice Myo.

[Pubblicato su http://www.peacereporter.net ]

Elisabetta Norzi

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