Finisce in un nulla di fatto l’udienza di questa mattina a Caltanissetta, dove i giudici avrebbero dovuto sentire, nell’ambito del processo a carico dei funzionari di polizia Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, l’ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada. La sua citazione era nell’aria già da qualche mese, ma il pubblico ministero aveva preferito rimandare a causa del recente lutto subito da Contrada, dovuto alla perdita della moglie. Ma anche oggi, a distanza di tempo, non è andata comunque bene: il testimone ha fatto pervenire all’ultimo un certificato medico per giustificare la sua assenza di oggi. Si dovrà scegliere quindi una nuova data per ascoltarlo in merito al suo ruolo nelle indagini sulla strage di via d’Amelio, la collaborazione con Arnaldo La Barbera e la figura di Vincenzo Scarantino, che sarà invece ascoltato fra due settimane.
Intanto, tra il tempo trascorso dalle ultime udienze, quelle in trasferta a Roma per sentire alcuni collaboratori di giustizia, e quello che dovrà ancora passare per riprendere il pieno ritmo delle testimonianze, se ne andrà un mese, un considerevole lasso di tempo praticamente di stop. L’attenzione sul processo, tuttavia, rimane alta. Specie a fronte degli ultimissimi racconti ascoltati da pentiti del calibro di Vito Galatolo, Nino Giuffrè, Ciro Vara, c’è persino Giovanni Brusca, e ancora Francesco Di Carlo. Tutti, nessuno escluso, sono stati ascoltati da magistrati e avvocati diverse ore, i loro racconti sono partiti per ciascuno dal medesimo incipit: il loro ingresso dentro Cosa nostra, i loro inizi. Storie tutte interessanti, quasi avvincenti, piene di dettagli e spunti di riflessione. Ma qual è la loro effettiva attinenza con il processo in corso? È una domanda che sorge spontanea a fronte di innumerevoli ore di racconto nei quali, fatta eccezione per la sola testimonianza di Francesco Andriotta, i nomi dei tre imputati a processo non vengono detti neppure per sbaglio.
«Il dato davvero preoccupante e allarmante è che ci troviamo in presenza di una formazione progressiva della prova», osserva l’avvocato Giuseppe Panepinto, che in questo processo rappresenta Mario Bo. «Si tratta di collaboratori che di volta in volta, sentiti in un processo diverso dal precedente, aggiungono nuovi elementi ai fatti che hanno già raccontato, come se dovessero aggiustare il tiro in base al soggetto nei confronti dei quali si procede – torna a dire il legale -. Chi è stato sentito finora non aveva mai fatto riferimento a questa situazione, non aveva mai confessato determinate situazioni, se non dopo. Dal Borsellino quater, al processo sulla trattativa, a questo in corso adesso, ogni volta portano degli elementi nuovi». È accaduto spesso, in effetti, che il pubblico ministero Stefano Luciani li abbia contestati, chiedendo perché certe cose non siano saltate fuori già in sede di interrogatorio o in occasione dei processi che ci sono stati prima: «Andando avanti uno aggiusta il ricordo, ripensando a quei fatti mi sono venute in mente altre cose», hanno risposto tutti. O, ancora, «prima certe cose grosse non potevo dirle, mentre adesso ci sono le condizioni per poterle tirare fuori», per citare le recenti spiegazioni di Brusca.
«In genere succede il contrario – insiste l’avvocato Panepinto -, all’inizio ho un ricordo fresco e col passare del tempo sbiadisce. Questi invece sono collaboratori di giustizia al contrario, in cui il passare del tempo piuttosto che affievolire il ricordo lo rinvigorisce con nuovi particolari, una cosa drammatica. Dal mio punto di vista queste persone non si possono ritenere credibili», commenta amaro il legale. «Fra vent’anni, quando saranno ascoltati di nuovo, ci racconteranno di quando e come hanno accoppato Bo, Ribaudo e Mattei? – chiede, provocatorio -. Stavolta quale organismo sovranazionale gli avrà detto di dirlo?». Che siano attendibili o meno, un dato che spetta giudicare alla corte preposta, secondo l’avvocato Panepinto i racconti ascoltati finora udienza dopo udienza «hanno influito poco o niente sul processo in corso». Fatta eccezione, come già accennato, per Andriotta, un altro falso pentito condannato per calunnia al Borsellino quater. L’unico, fino ad ora, ad aver riferito direttamente di uno degli imputati a processo, Mario Bo. «C’era questa cosa, questi aggiustamenti. Io non potevo sapere cosa diceva Scarantino. Le cose che dovevo dire me le dicono di volta in volta di presenza o con i fogli», ha raccontato un mese fa davanti ai giudici nisseni.
Accusando l’ispettore Bo di essere stato tra quelli che, tra un pausa e l’altra degli interrogatori, gli avrebbe suggerito cosa rispondere ai magistrati rispetto al furto della 126 e le accuse contro Scarantino. Anche per quest’ultimo, negli anni, è emersa la medesima circostanza: bigliettini e post-it in cui alcuni funzionari di polizia avrebbero annotato dettagli e accorgimenti da riferire di volta in volta, alcuni di questi anche ritrovati e posti sotto accurato esame. Non si può dire lo stesso nel caso di Andriotta, che ha dichiarato di aver distrutto quei fogli pieni di suggerimenti in preda al nervosismo durante la detenzione nel carcere di Alessandria. «Fino al Borsellino quater il nome di Mario Bo non lo aveva fatto nessuno. A essere tirati in ballo erano i soltio Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, che compare dopo la morte del primo. Lui è uno di quegli elementi nuovi che escono fuori processo dopo processo, in pratica». Una circostanza che, dal suo punto di vista di legale difensore di uno degli imputati coinvolti nel processo, non può che metterlo in allarme.
«Racconti che io definisco preoccupanti perché evanescenti e fuorvianti, se li risentissimo tutti fra sei mesi avrebbero nuovi dettagli da aggiungere? – ribadisce il legale -. Bisogna chiedersi quanto influisca sui ricordi e sulle testimonianze di certi personaggi l’aver ascoltato di determinati fatti alla televisione, di averne letto sui giornali, di averne sentito in altri processi. L’ultimo sentito (Di Carlo … ndr) non ha detto quasi nulla di rilevante per questo processo. Sono esami che poi saranno più pregnanti per altri processi ancora?». Tante, insomma, le perplessità dell’avvocato difensore. Rimasto colpito anche dal recente mea culpa pronunciato da Brusca, durante la trasferta romana per sentire lui e gli altri collaboratori, che per la prima volta ha chiesto scusa per quanto commesso nella sua carriera di mafioso. «Come ha fatto a non commuoversi di fronte a tutti gli altri omicidi commessi in passato? E a non avere avuto neppure un sussulto mentre scioglieva nell’acido il piccolo Di Matteo? Quanto possono contare oggi queste sue scuse? – si chiede -. Come fare a non intenderle come un insulto all’intelligenza? Sono tutti fatti di questo processo, però, quindi restiamo qui ad ascoltarli».
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