Via Castellana Bandiera, la strada dove perse le scarpe il Signore

NEI RISTRETTI LIMITI DI UNA STRADA  CAPIAMO CHE I LIMITI SONO QUELLI MENTALI, BASTIONI INSORMONTABILI CHE PONIAMO TRA NOI E LA VITA

di Barbara Morana

Quando guardo un film per deformazione professionale mi soffermo sulle inquadrature, i movimenti della macchina da presa, la profondità di campo, la luce, insomma cerco di capire come il regista e il direttore della fotografia hanno scelto di occupare il campo visivo dell’osservatore. Cerco di reperire i dettagli, gli appigli visivi, le messe a fuoco e le sfocature che mi permetteranno di fissare la trama in una serie di piani sequenze che resteranno per sempre nella mia memoria ripensando a quel film, fatta premessa naturalmente che il film in questione riesca ad entrarci e restarci. Devo ammettere che Emma Dante e Gherardo Gossi in Via Castellana Bandiera ci hanno regalato delle scene di una poesia sfrontata e di una plasticità inquietante.

La mia preferita è senz’altro la scena iniziale interpretata da Elena Cotta: siamo al cimitero dei Rotoli, un primo piano sulle mani stanche di una donna anziana che bagna il pane e se lo mette in tasca, l’acqua scorre e con lei il tempo, il dolore scandisce silenziosamente la vita di quelle mani vecchie e stanche in un luogo che le vite le raccoglie, le custodisce, le annienta. Non ci guarda mai in faccia, è vestita di nero, potrebbe essere chiunque, una di quelle vecchiette a lutto perenne che affollano i nostri cimiteri, o il riflesso diafano delle nostre paure fattosi carne ed ossa. Dopo aver sfamato i cani randagi con il pane che aveva in tasca, la donna inizia a pulire una tomba, con un colpo di scopa spazza via le foglie e ci presenta il suo dolore, ha un volto e un nome: Thana Calafiore morta nel 2006 a soli 36 anni. Infine, si toglie le scarpe, insignendo al luogo la sacralità che gli spetta, e si sdraia pancia in giù sulla tomba. Cappella, moschea, sinagoga, luogo venerato dai suoi occhi profani, che racchiude il suo dolore sordo e lancinante e rinchiude il suo presente e il suo futuro nell’attesa che la Moira Atropo recida il filo del fato mettendo fine una volta e per tutte alla sua sofferta esistenza.

Noi guardiamo commossi, insieme ai cani, cercando di non fare rumore, scorriamo con lei il tempo che si fa immagine, diventando silenziosi testimoni di una cerimonia che intuiamo ripetersi esattamente allo stesso modo dal maggio 2006, non vi è musica per accentuare la drammaticità del momento o per smorzarla, non ve ne alcun bisogno, siamo storditi dall’assordante rumore che il dolore di questa donna produce nei nostri cuori, ogni aggiunta sarebbe superflua distrazione. Di quella donna che corteggia la morte in seguito conosceremo il nome: Samira madre di Thana, nonna di Nicolò, suocera di Saro.

Dopo il cimitero, si intravedono alcuni scorci del quartiere dell’Acqua Santa e Vergine Maria, si entra nella stretta via Castellana Bandiera, ai piedi di monte Pellegrino, lì due macchine si scontrano e due donne s’incontrano Rosa (Emma Dante) e Samira (Elena Cotta). Ognuna porta con se un carico di insoddisfazioni e fallimenti, Rosa sentimentali, evidente è infatti la crisi che la protagonista sta attraversando con la compagna Clara (interpretata da Alba Rohrwacher); Samira esistenziali, morta la figlia Thana la donna vive con la famiglia del genero, sfruttata ed ignorata da tutti tranne dal nipote Nicolò unica persona con cui riesca ancora a comunicare. I fardelli che le donne si portano dietro probabilmente quel giorno diventano insostenibili, li poggiano per terra e decidono di intrecciare le loro vite per sempre in un duello avvincente in sella ad una Punto rossa e una Multipla blu. Nel ristretto budello di una via dimenticata da Dio, un afoso giorno di scirocco, due macchine provenienti da opposte direzioni bloccano la strada, per sbloccarla una delle due macchine deve cedere il passo all’altra, in questo duello senza riserve le due donne sfideranno le proprie paure e affronteranno temerarie i propri destini, appassionando vicini e parenti, un universo a se stante fatto di uomini, donne e bambini che fanno da contorno con la loro corale teatralità a questa storia senza tempo, mettendo in luce slanci, limiti, passioni, generosità e bassezze di uno scorcio di mondo unico nel suo genere ma universale nel suo divenire.

Il nostro sguardo è rapito dal circoscritto scenario in cui si svolge la trama, come al teatro non vi è spazio per le distrazioni se non quelle concesse da chi sta raccontando la storia, i personaggi riempiono lo spazio scenico con il loro brusio, le loro chiacchiere, le loro suppliche, fanno da colonna sonora ad un film che sulla mimica dei personaggi ha puntato tutto. Il risultato è sorprendente, non vi è un momento dove l’attenzione scende e lo sguardo spazia altrove, rimaniamo inchiodati allo schermo/palcoscenico, la nostra attenzione è appesa al sottile divenire della storia scritta e diretta secondo logiche teatrali prestate al cinema da un artista a tuttotondo che riesce a fonderli, separarli, contrapporli. La regista è riuscita a circoscrivere il nostro interesse al divenire della storia come privata constatazione di fatti vissuti da altri ma di cui ci appropriamo lo spazio di un film. Nei ristretti limiti di una strada che si apre e si schiude come l’obiettivo della telecamera, capiamo che i limiti sono quelli mentali, bastioni insormontabili che poniamo tra noi e la vita: quelli che ereditiamo, quelli che decidiamo non oltrepassare per pudore o timore o semplicemente quelli che ci spettano per appartenenza geografica a un luogo che non abbiamo scelto ma che ci è stato imposto.

In questo primo film Emma Dante porta al cinema il suo affermato genio creativo regalandoci un film che sposa l’immediatezza del cinema e la solennità del teatro, mettendo in scena personaggi in cui ci riconosciamo a da cui ci dissociamo, lo fa con un registro visivo e sonoro ibrido, bastardo figlio di un connubio meraviglioso che mi ricorda certi film e alcune pièces di teatro del geniale ed eclettico Sacha Guitry. Vi invito ad andarlo a vedere e sfido chiunque a non sentirsi coinvolto, identificato, inorridito, compiaciuto, divertito, con questo inno corale ad una palermitanità sgargiante, ad una volgarità soffocante e coinvolgente, che ci unisce e ci divide allo stesso tempo in popolani e tischi toschi in nome di una quotidianità che ci accomuna tutti sotto il sole cocente di una città metafora del mondo che pare non muoversi, per scelta testarda di non scendere a compromessi prima di tutto con se stessa.

Barbara Morana

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