Il problema si legge nel titolo: se i “ragazzi (sono) fuori”, si può sapere una buona volta chi sta dentro? Che l’Università italiana sia a misura semmai di docente e non certo di studente, finalmente lo ammette e – udite – lo scrive senza timore anche chi è dentro il sistema. Infatti, non lo si legge più solo nei periodici che ogni tanto fanno scandaletto – e qualche altra volta reportage serio – sulle “solite cose” (concorsi, baroni, meritocrazia, finanziamenti, età media docenti, durata media degli studi, etc), bensì in articoli e commenti di matrice universitaria. Ma è bene riflettere che se l’Università italiana non è costruita intorno agli Studenti non è per caso. L’inconveniente è dovuto a meccanismi che sono quelli che sono e, inoltre, al permanere di equivoci che non vengono mai sanati.
A cominciare dal titolo che ci contraddistingue: perché “professori”, se poi siamo valutati per la ricerca e non certo per la didattica? Questo fa si che la didattica è – e sarà – sempre intesa una perdita di tempo. E con la didattica… gli Studenti. Che perciò saranno sempre “fuori”. Semplice.
Ma queste cose le sappiamo bene e voi direte: non si prende la tastiera in mano per pestare le dita sui tasti dell’ovvio. Però, dato che non è questione di volontà, ma di meccanismi, si può intervenire.
Ho la soluzione? Magari! Ma una indicazione si. In margine ad un Convegno sul ruolo dei Consorzi Universitari, si potrebbe affermare che essi detengono la chiave dell’innovazione nei rapporti Studenti – Università – Territorio.
Come? Anche questo è semplice. Basterebbe erogare servizi e finanziamenti solo ai corsi di laurea virtuosi, ovvero a quelli che intraprendessero il cammino della valutazione esterna (si ribadisce: esterna!). I corsi, allora, dovrebbero progettare gli obiettivi in confronto con gli enti locali, organizzare l’erogazione didattica di conseguenza, effettuare (o raccogliere e passare i dati per) verifiche sui risultati in base ad una programmazione sia di breve (semestrale ed annuale) che di lungo periodo, (placement e quanto altro). Indicare, di concerto con i valutatori, una serie di indici di efficienza da rispettare e migliorare continuamente (miglioramento continuo: un’etica prima ancora che una procedura prevista dalle ISO 9000 e seguenti).
Insomma, inizierebbe la morte lenta (purtroppo, ma sarebbe pur sempre qualcosa) dell’autoreferenzialità, che è il cancro dell’Università pubblica italiana. Un cancro invero particolare, che invece di danneggiare l’organismo in cui si verifica viene di fatto trasferito pari pari agli utenti, ovvero agli Studenti, alle loro famiglie e al Territorio.
Avranno i Consorzi il coraggio di una scelta semplice, dai risultato sicuro? O sono anch’essi figli di una cultura povera e interessata al miglioramento solo a parole? Se così fosse, che paghino anche loro, e sempre di più, contribuendo al dissesto della cultura, ma anche alla borsa del territorio amministrato.
* Giampaolo Schillaci è professore ordinario presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Catania
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