Verdone: “Sono un pedinatore d’italiani”

Amici miei partiamo in viaggio, alla guida della macchina da presa, alla ricerca di paesaggi non sempre immaginari, di personaggi non sempre reali, spezzando il tempo e lo spazio… Chissà quante volte Verdone avrà rivolto parole simili (così ci fa intendere) ai suoi collaboratori Danilo Desideri, Pasquale Plastino, Fabio Liberatori… Voliamo una volta nella “romanità de roma”, una volta “nell’italianità italiana”, una volta “nell’esterofilia esterofila” e poi di nuovo a ripetere il ciclo fino a non stancarci mai di vedere gli esasperati “tic e difetti” della gente, calati nei suoi personaggi, scrutata dai suoi occhi. Chissà, con quegli stessi occhi, quante volte Carlo Verdone si sarà domandato, magari allo specchio, se aveva azzeccato il modo di rappresentarli, di farli diventare abbastanza comici oppure no, ma senza dubbio spassosi (esilaranti) al punto giusto. Chissà quante volte si sarà sentito ripetere dai suoi fan sei ‹‹Grande, grosso e… migliore!›› (alcuni li abbiamo sentiti noi). Chissà quante volte nell’ “agitare” la macchina da presa e le sue inquadrature come fossero una tavolozza con i suoi pennelli, avvicinando e allontanando le immagini come fossero colori, avrà esortato i suoi compagni di viaggio nella ricerca di nuovi orizzonti, nell’ “addomesticare” nuovi personaggi, coi suoi modi da incantatore.
 
E proprio coi suoi modi incanta sempre il pubblico siciliano. Lo abbiamo incontrato in occasione del festival “Cinenostrum”, felice di ricordare i suoi esordi: dai primi film in Super8, a quando venne bocciato da suo padre (professore universitario di storia e critica del cinema) fino alle lezioni al Centro Sperimentale dove imparò a carpire gli insegnamenti del maestro Roberto Rossellini. Verdone ricorda i suoi esordi accanto a Sergio Leone il quale una volta gli disse: ‹‹ragazzo, io devo ancora capire perché mi fai ridere tu››. Il resto si sa…
 
Alla nota idea di autorialità espressa da Jean Renoir – secondo la quale un regista, nel corso della sua carriera artistica, non fa che “fare e rifare” un solo film (con le dovute varianti), ricorrendo a soggetti già trattati – si contrappone quella di chi “accusa” Verdone di mancare di questa autorialità: infatti c’è chi dice che i suoi film sono diversissimi tra loro. Chi invece afferma che i suoi personaggi sono simili, in un susseguirsi di ripetizioni, cacofonie e situazioni narrative, atti a raccontare sempre gli stessi tipi di persone, si ritrova divertito nell’ascoltare una sorta di epiteto verdoniano: lui è per professione “Pedinatore Verdone” infatti dichiara scherzosamente “io sono un pedinatore di italiani” – poi aggiunge – “e dei loro ripetitivi problemi e modi di fare”. Intenso, amaro, dolente, graffiante, volgare… perché no? C’è una commistione di emozioni nei suoi film. ‹‹Mai accomodante però›› – lo ha precisato una volta il padre Mario Verdone -, in ogni suo film c’è cinismo, c’è miseria, c’è vuoto e c’è anche una marcata vena di malinconia, ‹‹in lui c’è compassione, ma non indulgenza››.

Carlo, chi l’ha spinta (e in che modo) ad amare questo mestiere fin da piccolo?
Proprio mio padre, critico cinematografico, che mi portava al cinema due volte a settimana, e il clima che si respirava in casa: intrattenimento, rappresentazione scenica, conversazione con i grandi del teatro e del cinema di allora. Ma soprattutto se sono qui lo devo a mia madre: ‹‹Vai, vai, che un giorno mi ringrazierai fregnone…››. Se non fosse stata lei a darmi un calcio in c… non sarei qua adesso.

Cosa sarebbe il “tocco alla Verdone”?
Umanità, sincerità, verità, piccole deformazioni che fanno parte di una verità; è una lente di ingrandimento che va su dettagli veri: son persone vere con debolezze vere, con difetti veri. Ecco perché forse il pubblico si identifica molto con questi personaggi.
 
Tre elementi emergono principalmente nelle sue opere: la famiglia, la psicoanalisi e  l’introspezione.
Sì, un tempo c’era più aggregazione, ribellione da parte dei giovani. Oggi in cui la solitudine e il dolore la fanno da padroni non posso che fare film sul bisogno di comunicare anche in modo corale. Io parlo spesso dei rapporti genitori-figli perché oggi la famiglia è un territorio disastrato, è un pianeta pieno di tensioni, di colpi di scena, ma anche di umanità. Fare analisi è diventato un punto di riferimento però consiglio ai giovani di non abusarne solo perché magari hanno avuto una delusione d’amore.
 
Il suo metodo di fare cinema lo ritiene più induttivo o deduttivo?
Tutte e due: deduco e poi induco… o viceversa. Boh! Sicuro osservo la realtà e la ripropongo a modo mio con una lente di ingrandimento.
 
Quindi prima induce e poi deduce. Allora vuol dire che da un difetto di qualcuno, da una situazione, traccia la strada per raccontare una tematica? E poi cuce addosso all’attore il personaggio?
Di solito sì, parto da un fatto che mi è successo e mi metto nei panni di quello che ho pensato per il mio film. In genere, quando mi è possibile, scelgo attori che nel privato assomigliano abbastanza ai personaggi che devono interpretare. Di sicuro scelgo bravi attori.
 
Da spettatore, che tipo di regìa preferisce?
Amo lo stile “Leoniano” (del suo “padrino” – come lo chiama lui, ndr) con le inquadrature lente, sguardi fissi, i rumori di ogni genere catturati sin nei minimi dettagli…
 
Quali opere d’arte le piacciono maggiormente in Sicilia?
Noto. Un autentico gioiello a livello mondiale, una cittadina meravigliosa immersa nel barocco. E poi in Sicilia c’è un sincretismo tra cultura araba, normanna, romana, greca… importante, notevole.
 
Una frase che la rappresenta?
Mah… non saprei. Ecco… penso che il mio lavoro sia anche una missione da compiere: cerco di essere in qualche modo un antidepressivo per il pubblico.

Stefania Oliveri

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