Quasi quarant’anni di cinema, ma soprattutto di sogni ed incubi: col suo stile visionario ed inquietante David Lynch ha affascinato e conquistato anche il grande pubblico, oltre che la critica. Quest’anno il CDA della Biennale di Venezia ha accolto la proposta del direttore Marco Muller di attribuire al regista americano il Leone d’Oro alla Carriera nell’ambito della 63esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica; un riconoscimento al quale Lynch tiene moltissimo: “Ho tutte le ragioni per essere soddisfatto di questo premio” ha detto il regista “Se consideriamo quante persone sono state premiate in passato qui Venezia”. Sempre nella città lagunare, Lynch ha presentato fuori concorso il suo ultimo film, Inland Empire, interpretato da Jeremy Irons e Laura Dern, e con il quale ancora una volta ha lasciato la critica senza fiato.
Nato nel Montana sessant’anni fa, in una piccola cittadina simile a quelle che avrebbero fatto da cornice alle sue opere più famose, il giovane Lynch frequenta diverse scuole d’arte e ad appena 21 anni si sposa e diviene padre di Jennifer (che tenterà di seguire le orme del padre negli anni ’90). Verso la fine degli anni ’60 inizia a realizzare alcuni cortometraggi – tra cui The Amputee, The Alphabet e Six Figures Gettin’ Sick – in cui è già evidente quello che sarà il suo stile, ed il suo modo di fare cinema, così caratteristico ed a tratti disturbante, ma così magnetico ed affascinante. Nel ’77 il regista firma il suo primo lungometraggio, Eraserhead – La mente che cancella, la cui lavorazione era iniziata cinque anni prima. Il film inizialmente viene giudicato improponibile al grande pubblico per i suoi contenuti, ma sarà in grado di affascinare grandi personalità del mondo della Settima Arte, tra cui Stanley Kubrick.
Negli anni seguono opere entrate a far parte della storia del cinema come The Elephant Man, Velluto Blu, Cuore selvaggio, Strade perdute e l’acclamato Mulholland Drive, ma anche una serie tv di culto come I segreti di Twin Peaks, che pur mantenendo gli elementi ricorrenti nel cinema di Lynch, riescono ogni volta a spiazzare e dividere pubblico e critica. Impossibile restare indifferenti alle storie destrutturate ed astratte, eppure emozionanti del regista: ci si lascia trascinare senza opporre alcuna resistenza nei suoi mondi silenziosi, quasi immobili, popolati da personalità distorte e mostri dall’animo gentile, seducenti e pericolose donne fatali – come la Dorothy Vallens di Velluto Blu o il duplice personaggio interpretato da Patricia Arquette in Strade Perdute. Il regista del Montana, che l’ex compagna di vita Isabella Rossellini descrisse come un uomo semplice, riesce incredibilmente a portare sul grande schermo l’atmosfera, i colori, il silenzio ed i volti che appartengono soltanto ai sogni ed agli incubi.
Autore innovativo ed artista poliedrico, tra un film e l’altro Lynch non si stanca mai di percorrere nuove strade, anche e soprattutto dal punto di vista tecnico: Inland Empire – che il regista definisce “Un’opera astratta che vuole parlare all’intuito dello spettatore: che è qualcosa in cui intelletto ed emozioni si integrano reciprocamente” – è girato interamente in digitale.
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