Ogni estate la classifica Censis sulle università italiane pone al centro le questioni irrisolte degli atenei siciliani. E, ogni anno, ci si ritrova a discutere dei criteri di classifica. Nel 2018, però, l’università di Palermo incassa un risultato storico che probabilmente avrebbe fatto a meno di raggiungere. Per la prima volta, infatti, Unipa viene declassata da mega ateneo a grande ateneo: in soldoni significa che ha perso un numero notevole di iscritti. «Negli ultimi otto anni l’Università di Palermo ha perso oltre duemila iscritti ogni anno, e nessuno si chiede il perché» scrive sulla propria bacheca Fb il giornalista de Il Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco. Perché in effetti il dato principale è proprio quello: il numero degli studenti iscritti sarebbe sceso sotto la soglia fissata di 40mila. Anche se il dato viene contestato. Ad esempio dal professore Vito Ferro, professore ordinario di Idraulica Agraria e Sistemazioni Idraulico-Forestali, che alle scorse elezioni universitarie si era candidato a rettore (venendo poi battuto dall’attuale magnifico Fabrizio Micari).
«La consultazione odierna dell’anagrafe studenti del Miur (il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca … ndr) riporta il valore 40.516, di poco maggiore di 40.000, quindi siamo un mega ateneo e quindi il Censis ha sbagliato – segnala Ferro – Anche perché possiamo diventare un mega ateneo organizzando strategie che fanno crescere il numero degli immatricolati e il numero dei fuori corso. Il trend decrescente registrato nel periodo 2009/2010-2014/2015 deriva dagli interventi (materie scoglio, corsi di recupero) effettuati in favore degli studenti fuori corso. Dall’anno accademico 2014/2015 (ultimo del rettore Lagalla, con 43.258 iscritti) si passa al valore 40.850 del 2015/2016 e infine al 40.516 del 2016/2017. Le “ragionevoli immaginazioni di ripresa della crescita” si scontrano con le realtà numeriche di decrescita».
Resta il fatto che dopo la punta massima di iscritti nell’anno accademico del 2008/2009 (57.888 coloro che hanno pagato le tasse del primo anno) si è giunti, a dieci anni di distanza, a una diminuzione verticale di quasi 20mila persone. Un crollo di quasi il 50 per cento, in pratica un dimezzamento, che deve far riflettere. E sul quale parte l’attacco dei sindacati. «A ciò si aggiunge il peggioramento del punteggio medio complessivo – scrive in una nota lo Snals (sindacato nazionale autonomo lavoratori scuola) – che tiene conto di servizi, borse di studio offerte agli studenti, strutture, comunicazione, servizi digitali e internazionalizzazione e che è passato da 85,6 (ottenuto nel 2017) a 83,8. Nello specifico, sono peggiorati rispetto al 2017 i punteggi relativi ai servizi (da 76 a 75), alle borse di studio (da 87 a 78), alla comunicazione e ai servizi digitali (da 109 a 103). Gli unici miglioramenti rispetto all’anno passato riguardano le strutture (da 84 a 88) e l’internazionalizzazione (da 72 a 75).
Evidentemente il percorso di crescita tracciato dal magnifico rettore non ha sortito gli effetti sperati, ma ha prodotto effetti diametralmente opposti, quali il calo del numero degli iscritti e la perdita del “primo posto come università del Sud”. Ed è curioso rilevare che il peggioramento è avvenuto proprio in quei settori per i quali il magnifico rettore pianificava una crescita (vedi i servizi). Altrettanto stupore desta la constatazione del netto passo indietro nell’ambito della comunicazione e dei servizi digitali, nonostante l’assegnazione in posizione di comando di due esperte di comunicazione provenienti dall’università di Torino». Secondo Giovanni Madonia Ferraro, coordinatore provinciale di Snals, i problemi insomma sono tanti. Ed è a ciò, e alle questioni irrisolte, che si dovrebbe l’emorragia di studenti.
«Non siamo di fronte all’unica pagina buia nella storia recente dell’Università di Palermo – prosegue la nota dello Snals – ma se ne potrebbero citare innumerevoli altre. Basti ricordare la decisione del rettore che, candidandosi a presidente della Regione Siciliana senza rassegnare le dimissioni, ha trascinato irrimediabilmente l’ateneo nell’agone politico, scelta di cui quest’ultimo sta ancora pagando le conseguenze. Di fronte a questo scenario a tinte fosche, non si comprende come mai tutta la comunità accademica non voglia far sentire la propria voce per ribadire con forza e determinazione il proprio senso di appartenenza a una istituzione che deve fare della formazione e della ricerca la propria ragione primaria di esistenza. Cosa si cela dietro questo inspiegabile silenzio? Il silenzio è complicità. Siamo convinti che solo offrendo ai giovani un’offerta formativa di qualità a 360 gradi l’università di Palermo possa arrestare l’emorragia di iscritti, recuperare il gap che la separa dagli altri atenei e ottenere nei fatti, e non nelle parole, il primato tra le università del Meridione».
Bisogna in caso sottolineare che nell’ultimo anno disponibile (il 2017) i dati degli iscritti sono in discreto aumento. Così come è innegabile la volontà del rettorato di tornare, dove possibile, a togliere il numero chiuso in alcuni corsi di laurea. Certo, l’università di Palermo – pur con tutti gli sforzi – non resta un corpo alieno rispetto alla società circostante (per fortuna). Utilizzando questa prospettiva, insomma, appare più chiaro uno dei possibili motivi per cui gli studenti e le studentesse preferiscano emigrare anche per conseguire una laurea: senza futuro, nella terra con la più alta percentuale di disoccupazione giovanile, non c’è presente. E senza lavoro non c’è università che tenga.
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