Un diploma di maestro elementare ancora inutilizzato e una matita che dovrà bastargli per due anni, per mettere note alla vita nei campi di concentramento di Fallingbostel, Tarnopol, Siedlce, Sandbostel e Wietzendorf. È tutto quello che resta in mano al tenente Giovanni Messina il 9 settembre del 1943, quando, presso la delegazione trasporti di Durazzo, in Albania, viene fatto prigioniero dalle truppe naziste. Due anni di studio all’Orientale di Napoli e il ruolo di ufficiale gli valgono la possibilità di collaborare con i tedeschi, ma l’ufficiale preferisce salire su un carro bestiame. Ha solo 29 anni, oggi ne avrebbe avuti cento e il suo nome figura fra i deportati nei lager che la prefettura di Catania ha deciso di insignire di medaglia d’onore, in occasione della Giornata della Memoria.
«Aveva una scrittura piccolissima», afferma il nipote Giovanni, che questa mattina ha ritirato l’onorificenza durante la cerimonia tenutasi al Palazzo del governo. Porta il nome del nonno e ne ha trascritto pagina per pagina il diario della deportazione, lavoro che ha trasformato in un vero e proprio studio per la propria tesi di laurea: «Si tratta di un notes che abbiamo ritrovato dopo la sua morte. In alcune parti si capisce che cercava di calcare il lapis il meno possibile per non consumarlo, in altre si vede proprio che la matita stava finendo».
Una sola non gli sarebbe bastata a coltivare l’abitudine quotidiana della scrittura per tutto il tempo della prigionia, ma Giovanni Messina «riuscì a estorcerne una seconda a un cappellano militare», come ricorda il figlio Gaetano. Potè così continuare con la sua memorialistica delle angherie e degli stenti patiti: «36 gradi sotto zero e 60 grammi di pane al giorno – ricorda il secondogenito. – Papà venne deportato insieme ad altri amici di Acireale, ma rientrarono in pochi, molti morirono d’inedia. Strisciavano nel fango pur di rubare alle sentinelle le bucce di patate, che poi lavavano con la neve».
Il diario di nonno Giovanni parla di «marce sotto la neve» e di «quell’amico che i tedeschi lasciarono ad agonizzare semplicemente perché aveva appoggiato sul filo spinato il panno per lavarsi», di preghiere per non morire e di modi per esorcizzare la fame: «sono pagine piene di ricette, c’è persino quella dei cannoli di ricotta», ci informa il nipote. «Si portò quegli anni anche nella sua professione di maestro, che poi svolse dal ’45 al ’74. E non sopportò mai lo spreco di cibo», continua il figlio, che fa sapere anche che, della sua esperienza concentrazionaria, Giovanni non parlò mai che con i familiari: «Non amava ostentarla e la tenne sempre come esperienza privata».
Ma c’è anche chi a scrivere si vergognava. Come ad esempio Antonino Garufi, un altro degli insigniti, anche lui ormai deceduto, ma che maestro non era: «Faceva lo stuccatore, e fino a 18 anni – età in cui si arruolò nei carabinieri – realizzava rosoni per abbellire le chiese. Aveva solo la quinta elementare», spiega il figlio Filippo, «ma a partire dal 1980 cominciò a buttare giù la sua storia. Dieci anni dopo, la casa editrice Gelka, di Palermo, decise di pubblicarla senza apportarvi correzioni». Diario di un deportato parla di Dachau e di Buchenwald, i due campi che impressionarono la memoria di Garufi.
«Era un partigiano, l’8 settembre si trovava in Friuli ed entrò nella Brigata Osoppo», dice di lui Santina Sconza, presidente dell’Anpi provinciale di Catania. Che ci tiene a ricordare come a Buchenwald la liberazione sia arrivata prima dell’esercito statunitense: «l’11 aprile del 1945, all’interno del lager, un comitato clandestino antifascista internazionale organizzò un’insurrezione. – racconta. – Erano disarmati, ma riuscirono a catturare 220 aguzzini delle SS e a resistere per due giorni. Il campo che consegnarono agli americani era già libero».
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