S’intitola ‘Un giorno sarai un posto bellissimo‘, cita Paolo Borsellino ed è il romanzo d’esordio dell’attore palermitano. Racconta le stragi di mafia, le bombe in città, e l’amicizia tra un ragazzino che riceve gli auguri di compleanno da Falcone e il suo compagno di banco, figlio di un boss. Una storia autobiografica che ha riportato il suo autore, dopo un anno e mezzo di assenza, nella sua città natale: «Non sarò profeta in patria», dice.
di Luisa Santangelo
Arturo e Lorenzo sono amici dal primo giorno delle scuole elementari. Si conoscono da tutta la vita e anche adesso che hanno quasi quarant’anni e vivono lontani l’uno dall’altro e lontani da Palermo, la città in cui sono cresciuti, si telefonano almeno una volta all’anno. Non di più, perché non vogliono disturbarsi. Arturo era timido e faceva a botte in continuazione, adesso fa l’attore. Lorenzo era simpatico e piaceva a tutti, ora vive in Francia con sua madre. Alla festa di compleanno di Arturo era andato Giovanni Falcone. Il padre di Lorenzo, invece, è il boss mafioso Salvatore Riccobono.
Un giorno sarai un posto bellissimo, il romanzo d’esordio del palermitano Corrado Fortuna, comincia così. E racconta bene la Sicilia delle stragi di Cosa nostra dal punto di vista di chi, in quegli anni, era un ragazzino. «La mia Palermo era una città protetta, per tutta una serie di ragioni: venivo da una famiglia borghese in una città borghese, e i miei genitori mi hanno dato una formazione antimafiosa», racconta l’autore, che ha già iniziato a dedicarsi a un secondo lavoro, un giallo ambientato a Roma.
Trentasei anni e una carriera da attore, Corrado Fortuna ha iniziato con Paolo Virzì, facendo da protagonista al suo My name is Tanino, nel 2002.
Poi è stato il personaggio principale di Perdutoamor, di Franco Battiato, e ha recitato in Alla luce del sole, il film di Roberto Faenza in cui Luca Zingaretti interpreta don Pino Puglisi. «Gli esordi gli vengono bene», ha scritto Baldini & Castoldi, la sua casa editrice, nella quarta di copertina. «Mi hanno fatto una sorpresa, io non c’entro», ride lui, che ha da poco terminato il suo tour di presentazioni in Sicilia.
Prima a Catania, poi due volte a Palermo, infine Messina. «Sono incazzato. Perché sono tornato a Palermo, non lo facevo da un anno e mezzo. Sì, sono davvero incazzato», dice. Non perché le presentazioni siano andate male («Abbiamo venduto tutte le copie, c’era un sacco di gente, folla fino alla strada», racconta) ma perché è la sua città, quella che ha lasciato 18 anni fa per trasferirsi a Firenze prima e a Milano adesso, è una città strana.
«Non voglio essere il profeta di nessuno, e sicuramente non lo sarò in patria: a Palermo il pubblico era composto per lo più da cinquantenni. Dei miei coetanei non ce n’erano molti, non sono riuscito a spiegarmi perché altrove sì e a casa mia no», spiega. «Il fatto è che a Palermo abbiamo il sole, il mare, abbiamo le arancine, le donne bellissime, e però è la città più difficile in cui io abbia mai vissuto dice Forse me ne sono andato da adolescente perché ne ero già stanco». Stanco, per esempio, del fatto «che per dire che ci siamo capiti a Palermo si dice “Mezza parola”. No, allora non ci siamo capiti. A me le parole piace dirle tutte e mi piace dirle intere». E gli piace ricordare, «perché se non lo facciamo noi, che in quella città e in quegli anni ci siamo cresciuti, chi?».
«Siamo un popolo che ha smesso di raccontare e, intanto, se la racconta», ironizza Fortuna. «Ci raccontiamo, per esempio, che è normale vivere in una città che puzza di merda, sommersa dall’immondizia, coi negozi che chiudono, in cui ci sono più musicisti che locali in cui possano suonare dal vivo afferma, amaro Ci raccontiamo che è normale prendere la macchina per fare duecento metri, non avere autobus, vivere immersi in un traffico incredibile, ci raccontiamo che vada bene che il favoritismo sia entrato non in politica, bensì nella vita di tutti i giorni. Abbiamo dimenticato cosa sono i diritti e siamo andati avanti chiedendo favori, e pensare che padre Puglisi è morto tentando di insegnare a non fare confusione tra le due cose».
Quella che sta vivendo la Sicilia sarebbe una «desertificazione culturale: abbiamo aspettato che Marco Tullio Giordana venisse a spiegarci chi era Peppino Impastato». Ma di chi è la colpa? «Sono stanco di dare la colpa ai sindaci e alle amministrazioni, sono i cittadini che devono trovare la voglia di vivere di bellezza. Bisogna smettere di nascondersi dietro al fascino della decadenza e trovare finalmente il coraggio di ammettere che quella è decadenza e basta».
«Di cos’altro avremo bisogno per risvegliarci? E poi ci riaddormenteremo di nuovo dopo dieci anni? – si domanda lo scrittore – Che altre bombe dovranno esplodere?». Al suo compleanno, come a quello di Arturo, il giudice Falcone c’era davvero: «Mio padre è avvocato, avevamo dato una festa nella casa in campagna e lui venne per salutare alcuni amici, me lo ricordo bene. Era già un eroe, ero fiero di poter tornare a scuola, l’indomani, raccontandolo ai miei compagni di classe». Trent’anni dopo, quest’aneddoto è diventato parte di un romanzo il cui titolo, invece, cita Paolo Borsellino: «L’ha detto lui, della Sicilia. Che un giorno sarà un posto bellissimo, il problema è che non ha detto quando».
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