Un progetto per la diagnosi di malattie neurovegetative «Così rare che chi ne è affetto è abbandonato dal mondo»

«Questo dispositivo è stato immaginato soprattutto per lo studio e la cura delle malattie neurodegenerative rare. Da sempre è un mio desiderio accendere i riflettori anche su queste patologie che spesso non hanno nemmeno un nome. Perché le persone che ne sono affette sono realmente abbandonate dal mondo e da Dio». Trasmette tanta passione e determinazione la ricercatrice palermitana Federica Scalia che, a soli 29 anni, ha sviluppato il progetto Exobrainer – nebulizzatore teranostico che sfrutta le nanovescicole ingegnerizzate a livello cerebrale e punta alla realizzazione di un clinical device, un dispositivo che potrebbe migliorare le indagini diagnostiche delle malattie neurovegetative rare come Parkinson, Alzheimer, oltre che dei tumori cerebrali. Il progetto sviluppato da Federica – laureata in Scienze biologiche e specializzata in biotecnologie mediche e medicina molecolare – è stato selezionato per prendere parte all’evento di chiusura dello SmartUp Lab organizzato dall’Università Federico II di Napoli lo scorso 13 dicembre. 

La prima giornata è stata dedicata al Final Pitch Contest SmartUpLab 2018, un programma di accompagnamento alla creazione di iniziative imprenditoriali innovative in ambito salute. Un campo, quello in ambito neurologico, dove ammette « di essere rimasta con le unghie e con i denti». Il progetto – elaborato da un gruppo di tre ricercatori composto da Eleonora Trovato 32 e Francesco Pecoraro 23, entrambi palermitani – è nato in occasione dell’Innovation Day organizzato a novembre dal Consorzio Arca di Palermo, in collaborazione con EIT Health. In quella occasione 70 partecipanti, tra studenti universitari e ricercatori interessati a sviluppare idee imprenditoriali in ambito scientifico sanitario, hanno partecipato a un contest di 48 ore, elaborando idee imprenditoriali molto interessanti. 

«Tutto è nato dall’intenso studio di letteratura che io e i miei colleghi abbiamo fatto durante l’ultimo anno sulle nanotecnologie – racconta Federica – Nonostante la ricerca farmacologica abbia raggiunto determinati obiettivi
rimangono ancora dei grossi buchi neri soprattutto per le malattie neurologiche, soprattutto delle forme più rare, quelle cosiddette ‘orfane’ perché non hanno né una diagnosi né una terapia». L’idea si basa sull’utilizzo di nanovescicole ingegnerizzate a livello cerebrale. Il dispositivo è stato pensato come possibile nuovo clinical device per abbattere principalmente i limiti fisici che la barriera ematoencefalica crea durante le indagini diagnostiche. Più del 90 per cento dei farmaci in commercio, infatti, non oltrepassa tale barriera. L’approccio innovativo consiste nell’isolare dal plasma sanguigno di un ipotetico paziente dei frammenti cellulari, chiamate esosomi, le quali sono prodotte fisiologicamente dalle cellule del nostro corpo e hanno la capacità di attraversare la barriera ematoencefalica.

Questi nanovescicole possono essere
ingegnerizzate in laboratorio in svariati modi e, successivamente, somministrate per via intranasale allo stesso paziente. «Ho letto che, a questo riguardo, si è parlato spesso di Alzheimer e Parkinson – prosegue – anche perché esistono già degli studi che riguardano la somministrazione intranasale di esosomi per queste due malattie ma sono in Giappone, non in Italia». L’obiettivo è di utilizzare queste innovative tecniche in Italia per le patologie più rare come le Leucodistrofie, le Paraplegie spastiche e le Sinaptopatie, tutte malattie ereditarie causate da mutazioni genetiche: «Hanno una loro sintomatologia ma siccome sono multifattoriali e complesse non si sa di preciso, in questo caso, quale sia l’area del cervello e quale cellula cerebrale è affetta. Per l’Alzheimer e Parkinson c’è un certo interesse, ma ho visto bambini affetti da malattie rare per le quali credetemi che non si è fatto nulla. Perché non ci sono finanziamenti e non c’è modo di studiarli: sono veramente abbandonati».

Le nanovesicole, quindi, possono essere realizzate in modo tale da essere inviate in precise aree del cervello, o possibilmente legandosi a specifiche cellule cerebrali, permettendo una visualizzazione dell’area colpita in fase diagnostica. Ma non solo: questo dispositivo rientra nella scienza che oggi viene chiamata teranostica ovvero l’integrazione di un metodo diagnostico con uno specifico intervento terapeutico inviando persino un farmaco in una determinata zona. «Possiamo decidere di inviarle in un determinato sito del cervello – prosegue – portando con sé una molecola chemioluminescente che, se sottoposta a indagini, si illumina rendendo visibili aree del cervello o addirittura determinate cellule».

Allo stato attuale di ricerca scientifica non è ancora possibile affermare se il dispositivo funzionerà o meno, avverte Valeria: «
Finché non verranno eseguiti degli esperimenti non è possibile alcuna certezza. Ma che questa possibilità esista, nasce dal fatto che alcuni studi sono in corso fuori dall’Italia. Ancora è prematuro per un giudizio definitivo, ma uno dei nostri grandi desideri è cominciare a fare qualcosa soprattutto qui, perché ne abbiamo la capacità e soprattutto la formazione. Ci sono malattie di cui non si sa assolutamente nulla – conclude – e sarebbe anche il caso di cominciare a dargli un nome».

Antonio Mercurio

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