Sarebbe stata una notizia qualunque, in un giorno qualunque, in un posto qualunque. In un incidente (si chiamano ancora così) sul lavoro, è morto l’operaio tunisino Mohammed B., 35 anni, schiacciato da un escavatore. Non era un posto qualunque: era l’università della Sapienza a Roma. Non era un giorno qualunque: era il giorno in cui, mentre il Senato correva a licenziare la legge di riforma universitaria, gli studenti romani manifestavano contro quella legge e molto altro.
Giornata molto attesa, e si era temuto (o augurato, vero?) che “ci scappasse il morto”. Ci è scappato, il più prevedibile e insieme il più imprevisto. Gli studenti romani, che erano stati così capaci di andare, loro e i loro pacchi dono e i loro fiori, “da un’altra parte” rispetto alle autorità costituite, sono rientrati nella loro università a lasciarli al posto giusto, quei fiori. Le coincidenze, quando sono troppo simboliche, rischiano di cancellare le persone, e già Mohammed B. è una riga dell’elenco di mille, e magari ci sarà chi giocherà sul contrasto fra gli studenti figli di papà e fannulloni che si aggirano per la città a fare chiasso e l’uomo che fatica per loro. Nei giorni scorsi si erano insultati gli studenti impegnati a prendere a cuore il destino proprio e altrui, e si era ennesimamente riletto a vanvera il Pasolini di Valle Giulia. Chissà se lo leggeranno una buona volta per intero. A occhio e croce, questi ammonitori non darebbero cinque centesimi
e cinque minuti della loro tasca per bagattelle come gli “incidenti” sul lavoro e gli operai tunisini. Intanto, nella così “normale” tragedia di ieri c’è un senso in più: perché ieri gli studenti hanno disegnato la loro mobilitazione non solo in modo da voltare le spalle al malaugurio dei loro odiatori, ma soprattutto in modo da cercare un legame con tante altre persone, con i quartieri senza zone rosse in cui altre persone abitano, coi luoghi in cui lavorano.
È uno svolgimento pressoché naturale di ogni movimento in cui i giovani si impegnino, smettendo di scommettere da soli, o addirittura l’uno contro l’altro, sul proprio futuro. Anche sulla presunta superficialità con la quale gli studenti (all’uopo intervistati dal tg) si misurano “nel merito” di cose tecniche come i tagli finanziari o i disegni di legge, si soloneggia parecchio. E’ successo con ogni riforma scolastica, dalle pessime alle passabili. Nell’obiezione dei giovani c’è un movente concreto ed esatto, e uno universale, ed è difficile, per fortuna, districarli. Tutti i poteri, se non altro perché sono troppo abituati e affezionati a comandare, sono soprattutto imbestialiti all’idea che qualcuno li metta in discussione non solo da un proprio particolare punto di vista, ma con un’altra idea della convivenza. Sta succedendo di nuovo. E mettendo fuori la testa, uno dei primi paesaggi in cui gli studenti si imbattono è popolato dai loro coetanei, più o meno, che vengono dall’altro mondo. Nella cancellazione della voce dei ragazzi invalsa da noi – con quel giovanilismo fasullo che fa dichiarare “giovani” i pretendenti al viceregno di cinquanta o sessant’anni, e dei giovani sul serio, dai 15 ai 24, si ricorda soltanto fornendo l’ultimo dato sulla disoccupazione, 26 per cento, 36 al sud…- ha una parte essenziale il contrasto fra una società via via più avara e longeva (e inebriata dall’elisir di lunga vita, in confezione premier kazako) e un’immigrazione impetuosa che ha le fattezze di uomini giovani e prolifici.
L’immigrazione straniera e povera è un capitolo essenziale del rapporto fra vecchi e giovani da noi. È una propaggine via via più intima del nostro rapporto col mondo povero nella stagione del nostro impoverimento: noi vecchi e con pochi figli, loro giovani e come conigli. In realtà, i vecchi non sono uguali, anzi, e i vecchi potenti (e spaventati dall’impotenza) e i vecchi pensionati sono lontani come il giorno dalla notte, e i giovani “nostri” e quelli nuovi arrivati possono avvicinarsi come la notte al giorno. I giovani studenti che si ribellano e i giovani immigrati che vengono qui a faticare e morire si aggirano come spettri fra noi: e, nella nebbia del secondo giorno d’inverno, possono apparire come uno spettro solo. Come davanti alla facoltà di Scienze Politiche – “scienze politiche”… Dove si leggono fra altre bellissime un paio di cose fuori posto. La prima, appena vergata: “Vendetta”. La seconda, che sta lì da sempre: “È vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”. Dentro una cittadella col nome di Sapienza, con un piccolo posto vuoto coperto dai fiori.
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