Un Otto marzo senza melassa




Volevo sottrarre la vostra visione dell’8 marzo al cuore di melassa in cui è stato immerso dal consumismo. In realtà è una storia lunghissima di lotte”, così la professoressa Grazia Priulla, docente di Sociologia della Comunicazione nella Facoltà di Scienze Politiche, spiega il perché dell’incontro del 4 marzo con l’UDI, l’Unione Donne in Italia.

Per la campagna “Stop al femminicidio” si è scelto di portare nelle università, mercoledì a Scienze Politiche e giovedì al Monastero dei Benedettini, la lettura di “Artemisia” di Anna Banti, un romanzo del dopoguerra su una storia di trecento anni fa, ma sempre attuale. A raccontare per gli studenti era Beatrice Monroy, scrittrice e narratrice palermitana.

Il perché di un incontro del genere, durante un corso di comunicazione, è semplice: “chi stupra, chi violenta non sa comunicare. Cerca una modalità di possesso dell’altra persona” – argomenta Priulla. Femminicidio, del resto, non è solo l’uccisione della donna da parte di un uomo, spesso vicino alla vittima, ma è anche il continuo non rispetto della dignità e della libertà delle donne. Guardando alle cifre, in aumento ma comunque falsate dal silenzio di molte donne – risulta che per violenza fisica muoiono ogni tre anni tante donne quanto un olocausto. “Quando ci parlano di olocausto, ci meravigliamo perché nessuno in quel periodo ha protestato. Noi non possiamo adesso costruire alla gente l’alibi di non sapere”, dice Giovanna Crivelli, responsabile dell’UDI per Catania.

E proprio per sensibilizzare a questo fenomeno, l’UDI sta portando in tutta Italia una serie di iniziative, rivolte anche e soprattutto ai giovani, come i ragazzi liceali presenti ieri al Monastero dei Benedettini. “Dobbiamo tramandare. C’è un filo che lega tutte le battaglie delle donne e, se si spezza, è un danno per tutte. Nessuna generazione può tirarsene indietro”, spiega la Crivelli.
E così, vicino all’8 marzo, l’UDI ha deciso di far conoscere “Artemisia” di Anna Banti, un romanzo molto caro alle femministe, tramite la lettura di Beatrice Monroy.

La Monroy racconta la storia di questa pittrice secentesca, Artemisia Gentileschi, partendo dalle prime parole del libro: il “non piangere” pronunciato tanto dall’autrice quanto dal personaggio.
Un racconto che sottolinea i punti di contatto della storia con il mondo di oggi, con la condizione attuale delle donne: nella violenza, nel rapporto con l’uomo e nella ricerca di una dimensione femminile che non sacrifichi il talento individuale.

Si parte dall’infanzia di Artemisia, bambina senza figura femminile di riferimento e che rifiuterà i vari modelli di donna che si incontrano nel romanzo. Simbolo della non solidarietà tra donne e della sottomissione all’uomo, la vicina di casa Tuzia “venderà” Artemisia, facendo da sensale per Agostino. Il pittore e amico del padre dell’adolescente, che ripetutamente la violenta, promettendole un matrimonio impossibile, perché già sposato.

Sono alcune delle pagine più conosciute e attuali del libro. Pagine in cui Artemisia fa la difficile scelta di raccontare tutto al padre, arrivando ad un processo. Artemisia viene torturata per dare credibilità alle sue accuse. Non ritratta e rifiuta un matrimonio riparatore, rifiutando così anche il perdono della società e del padre, figura centrale della sua vita. A lui subentra un’altra importante figura maschile, Antonio, lo sposo “mezzo scemo”scelto per ridare l’onore a questa ragazza. Un matrimonio in principio fittizio, ma che si rivela poi un vero amore. E’ anche un modo per ottenere la preziosa libertà che solo l’avere un marito può dare. Ma ecco un altro tema attuale: Antonio non tollera di avere accanto a sé una donna più realizzata di lui, un’Artemisia che intanto è diventata una pittrice apprezzata e famosa, e la abbandona quando lei è incinta.

Neanche la figlia sarà di conforto: detesta la madre, non capisce il suo mondo assurdo, né perché faccia l’artista invece di limitarsi al suo ruolo di genitrice. La stessa Artemisia si chiede perché essere pittrice, e non una donna come le altre: evidentemente anche per lei le due cose appaiono ormai inconciliabili. Certo non aiuta il ritorno di Antonio, ma con una “bella moretta” al seguito. Artemisia si chiude alla normalità e all’amore, vede la sua vita come un fallimento: “se gli altri ce l’hanno tanto con me, devo averla fatta grossa”, è il refrain che la Banti fa ripetere continuamente ad Artemisia, sottolineando l’ancora attuale senso di colpa delle donne, anche quando sono vittime. La sensazione di essersi meritate le violenze e le umiliazioni.

Il pubblico dibatte. Una docente di Storia dell’Arte racconta di come i suoi alunni, nel ripetere la lezione su Artemisia, indugino sul particolare dello stupro scambiandosi sguardi “peccaminosi”: “Se fosse stato un uomo, questo particolare lo avrebbero sottolineato?”, si chiede. Si parla di mass media, di educazione alla sessualità e ai sentimenti, di investire sull’aspetto culturale della violenza. Ma anche dell’importanza della lettura, e soprattutto di una lettura consapevole: “il libro è una cosa viva nel rapporto col lettore. La lettura è sempre una proposta”, dice la professoressa Priulla.

La discussione però si focalizza sull’aspetto attuale di Artemisia e su quanto invece sia cambiato. Giovanna Crivelli spiega a Step1 il punto di vista dell’UDI: “E’ chiaro che le cose cambiano, anche per le nostre battaglie, però un’Artemisia che ha dovuto subire una tortura per essere più credibile è terribilmente vicina, in modo simbolico, alle donne che durante le udienze per stupro sono costrette a spiegare perché avevano la minigonna, se in qualche maniera avevano provocato l’uomo, e se hanno provato qualcosa. Questa violenza deve finire, ma siamo abbastanza realiste per sapere che non avverrà subito. Abbiamo però il dovere morale di combattere con la stessa intensità e non esserne complici”.

Benedetta Motta

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