Un ospite inatteso nell’America pre-Obama

Non ci sono denunce urlate, né scenari bellici o eccessi militanti in L’ospite inatteso, seconda opera indipendente dell’attore e regista – e per l’occasione anche sceneggiatore – Tom McCarthy, che ha debuttato con The Station Agent, vincitore al Sundance Festival 2003.

Nell’opera seconda di McCarthy c’è un uomo di mezza età, Walter Wale, solo e annoiato, legato alla vita esclusivamente dal ricordo del passato. Un professore di economia che conduce un’esistenza fin troppo tranquilla senza preoccupazioni ma anche senza passione: ricicla vecchi programmi e lezioni per i suoi studenti e si sforza di imparare il piano, uno strumento per il quale non è portato, solo per mantenere una sorta di legame con la moglie morta, pianista professionista.

Ma la vita, si sa, va avanti anche se la si ignora, così Walter si trova costretto a partecipare ad un convegno a New York e a rimettere piede nel suo appartamento al Greenwich Village, che nel frattempo è stato affittato con l’imbroglio ad una coppia di giovani immigrati irregolari, il siriano Tarek e la senegalese Zainab. Da questo incontro inaspettato, che fa nascere dopo un’iniziale e reciproca diffidenza l’amicizia tra Tarek e Walter, prende il via un percorso insieme intimistico e di denuncia attraverso il quale il regista mostra la paura e il sospetto degli USA post 11 settembre nei confronti degli immigrati.

La vita monotona e metodica di Walter, interpretato da un brillante e perfetto Richard Jenkins, si trova a confrontarsi con quella del musicista Tarek (il bravo Haaz Sleiman) e della creatrice di gioielli Zainab (Danai Gurira), una vita piena di energia e vitalità come il ritmo dello jambé, lo strumento suonato da Tarek, e vivace come i colori dei gioielli di Zainab. Entrambi svolgono, infatti, un lavoro artistico tramite il quale esprimono la propria personalità, a differenza di Walter che fa solo un mestiere di facciata che non lo stimola più. Ma è grazie al ritmo vitale del tamburo africano, in contrasto con il suono nostalgico del piano, che il protagonista recupera un’inattesa pulsione di vita. Così, pur in assenza di vere e proprie azioni, ma nelle pause e banalità del quotidiano, la sua anima comincia a muoversi.

Il film è costruito sugli stati d’animo piuttosto che sugli eventi, attraverso una messa in scena sobria e una regia controllata capaci di far affiorare l’umanità dei personaggi mostrandoli in situazioni ora comiche e goffe, ora tenere e tristi. È goffo, infatti, Walter mentre cerca di imitare Tarek suonando lo jambè in mutande o quando comincia ad esibirsi nel parco e in metropolitana, ma è anche estremamente tenero nella sua timida riscoperta di una spinta passionale.

Proprio in metropolitana, il luogo di passaggio e di incontro di tante vite, culture e generazioni diverse, Tarek viene fermato e arrestato per un malinteso che dimostra quanto sia cieca la politica sull’immigrazione del governo Bush. Il suo fermo diventa una vera prigionia al Centro di detenzione ICE (Immigration and Customs Enforcement) e Walter è il solo che può andare a trovarlo, l’unico che può far da tramite tra Tarek e la madre Mouna, giunta nel frattempo in città. Così, lo spento professore comincia a lottare, ad indignarsi, e insieme a lui lo spettatore prende coscienza della desolante realtà del sistema di immigrazione americano e del cammino ancora difficile da percorrere prima che si realizzi una vera integrazione.

Il tenero rapporto con Mouna, interpretata dalla brava attrice israeliana Hiam Abbass, fa riscoprire a Walter sentimenti che sembrava aver dimenticato, ma il film di McCarthy è troppo sobrio e serio per concludersi con un consolatorio lieto fine. Il regista riesce nel difficile intento di mantenere la sua opera originale, nonostante gli ingredienti avrebbero potuto facilmente portarlo verso una scontata retorica e nonostante la presenza di qualche difetto: la socievolezza di Tarek può sembrare troppo enfatica e Zainab quasi scompare nella seconda parte, ma la linearità della regia e la bravura di Jenkins fanno sì che questi aspetti non intacchino il valore della pellicola.

L’insopprimibile malinconia che in essa si respira è la constatazione della morte dei valori di libertà, democrazia e accoglienza che l’America si vanta di rappresentare, incarnati dai simboli della Statua della libertà e della bandiera statunitense che appaiono sullo schermo a volte lontani, a volte in dissolvenza, come fossero un monito che fa ricordare come la cieca xenofobia ed intolleranza dell’amministrazione di Bush li ha svuotati del loro significato.

Il titolo originale del film, The visitor, sembra quindi riferirsi a Walter, una passeggera presenza nella sua stessa vita, un ospite nella sua stessa casa, e allo stesso tempo a Tarek, ospite in un paese che non sa più come accoglierlo e relazionarsi con lui, quasi a sintetizzare lo spirito intimistico e allo stesso tempo di denuncia sociale del lungometraggio di McCarthy. La denuncia di una politica miope e ingiusta fatta attraverso la storia di questi personaggi che dimostrano che lo straniero non deve essere percepito come un nemico e un pericolo, ma come un ospite che può diventare un amico e comunque insegnarti qualcosa. Walter alla fine impara la lezione e la insegna allo spettatore.

Agata Pasqualino

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