Sulle questioni che riguardano le politiche d’ateneo e la visione d’insieme, non mi pronuncio dato che non possiedo un’adeguata lucidità rispetto ai problemi che sono sul tappeto; espungo però, dall’intervista al prof. Pioletti due punti che mi stanno particolarmente a cuore. Il primo riguarda il triste destino che sembra gravare su scienza della comunicazione “made in Lingue”; il secondo riguarda la refrattarietà delle altre facoltà (lettere, scienze politiche, scienze della formazione ed economia e commercio) nell’accogliere ipotesi di progetti comuni che prevedano soluzioni “interfacoltà”.
Con la mancanza di tempismo che storicamente caratterizza la reattività dell’università nei confronti del mondo del lavoro, l’euforia legata all’offerta di “comunicazione” da parte di tante facoltà (inclusa la nostra) e del conseguente boom d’iscrizioni, ha coinciso con una lenta ma inesorabile contrazione del mercato del lavoro proprio nel comparto della comunicazione (già a partire dai primi anni Novanta). Paradossalmente quando tra l’80 e il ‘92 la crescita era esponenziale, almeno nelle agenzie di pubblicità e nei reparti comunicazione delle aziende multinazionali, l’università, globalmente intesa, si guardava bene dall’approntare un’offerta formativa coerente e in trend. La strada delle prospettive occupazionali si presenta oggi tutta in salita.
Mi permetto di sgomberare il campo da una serie di luoghi comuni che attualmente gravano su “comunicazione” e che mi avvicinano alle tesi del prof. Pioletti. Comunicazione, tra le tante cose, in concreto significa studio della marca; significa comunicazione pubblica e sociale; significa tutta una serie di ampie e promettenti declinazioni, inclusa quella che riguarda in turismo. Su quest’ultimo punto mi sono positivamente confrontato con il preside Famoso.
L’opzione “interfacoltà” non è, a mio avviso, auspicabile perché assolve agli obblighi di legge riguardo ai “ requisiti necessari”, alleanza tra poveri per raggiungere una soglia di legittimità. Ma è una necessità intrinseca, connaturata al respiro che “comunicazione” come ambito reclama. Facciamo un esempio. Una marca opera in un mercato, ma a Lingue manca la nozione di mercato. Una marca si rivolge a un target ma a Lingue mancano le nozioni sociologiche di base per leggere correttamente una tabella nella quale si incrociano due variabili. Ergo: ci serve sia la competenza marketing che quella sociologica.
Il discorso potrebbe continuare ed essere applicato alle carenze delle altre facoltà. Ma non è questa la sede. Credo che come facoltà di Lingue non dobbiamo essere “lingua centrici”; le altre facoltà, dal canto loro, farebbero bene a dismettere inattuali obiettivi autarchici. E l’intero ateneo, attraverso la commissione didattica, se non attraverso il potere di indirizzo del Rettore, dovrebbe occuparsi di questo problema.
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