Carlo Lucarelli, sceneggiatore, scrittore, giornalista, saggista e conduttore, ha ricevuto a Catania un premio intitolato a un intellettuale altrettanto poliedrico come Giuseppe Fava. Qual è il filo rosso che lega i suoi lavori?
«Io sono un narratore, esclusivamente un narratore. Racconto storie, e il mio modo di raccontarle è il romanzo. Ogni tanto mi piace utilizzare la tecnica narrativa che conosco per raccontare le cose alla gente, cose sulla mafia, su Giuseppe Fava. Ma io non sono affatto un giornalista. I giornalisti bravi sono altri».
Lei è diventato famoso per aver raccontato misteri, delitti, stragi di Stato con un ritmo e uno stile da romanzo. Come racconterebbe in quattro parole la storia di Giuseppe Fava?
«La storia di Giuseppe Fava è impossibile da descrivere in quattro parole, perché è anche la storia di una città. È la storia di un intellettuale. E uso la parola intellettuale nel senso di uno che ha un concetto chiaro della sua terra, pensa, riflette, smuove le coscienze. E proprio per questo motivo – le denunce, la capacità di smuovere le coscienze della gente – Fava dava fastidio ed è stato ammazzato. Il fatto impressionante è che ti ritrovi, oggi, a commemorare un uomo come quello, in un angolo di strada, senza un vigile a fare una multa. Hai sempre la sensazione di fare le cose solo tra la gente, senza mai l’appoggio ufficiale di chi amministra. Ma in tutta Italia è così».
Venticinque anni fa Fava sosteneva che sulla mafia vi era un’enorme confusione. I veri mafiosi non sono quelli che Sciascia definiva “scassapagliari”, cioè i piccoli criminali. “I mafiosi stanno in altri luoghi e in altre assemblee, spesso siedono in Parlamento, a volte sono ministri, banchieri”. Secondo lei è cambiata l’Italia da allora?
«Certamente. La mafia non coincide con lo stereotipo di coppola e lupara. Non era così neanche allora, Fava lo aveva capito. La mafia è un’impresa economica ed anche un’unità criminale. Sono persone con un sacco di soldi che ne vogliono fare sempre di più. E dove stanno di solito le persone coi soldi? Stanno in Parlamento, stanno al nord e dirigono l’economia. Se non la colpisci lì, la mafia rimarrà sempre un grosso problema».
Lei ha dichiarato: “L’Italia è un paese che ha problemi con il proprio passato. Viene messo sotto il tappeto come la polvere, ma accumulandosi ogni tanto esce fuori”. E ancora: “chi doveva far luce sui molti casi irrisolti si è invece prodigato per insabbiarli”. A suo parere esiste un modo per rompere questo meccanismo?
Sì. Perché i cassetti prima o poi si aprono, per tanti motivi. Si rompono i fili del potere, c’è qualcuno che vuole parlare, ma soprattutto si arriva ad un punto in cui la gente non ce la fa più, perché mantenere questi misteri, questi segreti, il potere nelle mani dei corrotti, non aiuta a far progredire il paese. Si arriva ad un punto in cui la gente si rende conto che è necessaria una reazione.
Lei distingue tra i misteri, a capo dei quali non si arriverà mai, e i segreti, per cui basta aprire i cassetti per tirare fuori la verità. Quanta verità c’è ancora secondo Lei dentro i cassetti che riguardano Pippo Fava? Secondo lei verranno mai aperti?
Io sono convinto di sì. Magari ci vorrà tempo, però i segreti prima o poi vengono sempre rivelati. E poi in qualche modo siamo anche obbligati a fare così perché se facessimo il contrario dovremmo stare barricati in casa. E non è così che si risolvono i problemi.
Una domanda al giallista: a Catania c’è una tipografia che stampa l’edizione siciliana de La Repubblica, un’edizione simile a quella romana, con le pagine di cronache locali. Ogni giorno però in edicola, a Catania, arrivano sedici pagine in meno. È un delitto perfetto o si può trovare il colpevole?
Credo che sia un meccanismo che abbia delle implicazioni politiche. Se fossi un cittadino mi spiacerebbe trovare delle pagine in meno di un altro giornale che vorrei leggere nella mia città. Anche se non sono un catanese, a dire il vero, mi dispiace lo stesso. Non so con esattezza quale sia il colpevole né quale sia il movente, però questo è un meccanismo da scardinare.
Sempre sul versante noir: Catania ha un enorme buco in bilancio e le strade di alcuni quartieri sono completamente al buio perché non ci sono i soldi per pagare l’Enel. Per non parlare dei cani randagi che si aggirano in branchi in cerca di cibo, dei lavoratori in mezzo a una strada che protestano, della raccolta dei rifiuti che va a rilento. Ci sono tutti gli elementi per scrivere un giallo sull’assassinio della città: se la sente?
No, io non me la sento. Non perché non sono catanese, perché conosco le contraddizioni della città. Ma ci sono scrittori, a Catania, capaci di scrivere quel giallo. Non me la sento invece perché io sono venuto tanto tempo fa a Catania, l’ho vissuta per un po’ e mi piace moltissimo. Il fatto di trovarla con tutti quei problemi, al buio, degradata, sull’orlo della bancarotta, il fatto di leggere tutto quello che abbiamo letto anche sui giornali nazionali, questo mi dà un gran fastidio. Contrariamente a quella che è la mia natura, invece, mi piacerebbe scriverci una bella storia d’amore, a Catania. Il giallo lo scrivano i catanesi: che scrivano un giallo in cui si chiedano perché è successo quello che è successo, chi è il colpevole, perché l’assassino c’è sempre, e come si fa a cambiare le cose.
Quando tornerà in TV? Parlerà ancora dei rapporti tra mafia e poteri forti in Sicilia e a Catania in particolare?
Sì, torneremo a parlare di misfatti, ma ancora non sappiamo quali. Abbiamo elenchi interminabili da cui scegliere. Torneremo in autunno e, in questi elenchi, di sicuro sceglieremo anche qualcosa sulla Sicilia e su Catania.
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