Un figlio alla madre: “Sono gay, avete problemi?”

 

Che si esista, oh delicato miracolo,
tant’è il nostro splendere un fiore che gualcisce.
Oh pensiero che sconfina nella follia!
Misero, dormi! Me, tiene desto una pena per te.
Ah! sfortuna d’amarti mio fragile amore
che respiri come si spirerà, un giorno!
O immobile sguardo, che tale farà la morte!
(P. Verlaine)

Omosessualità. Se ne parla, si tace. Fa sicuramente notizia. Nessun fatto rappresenta a priori una notizia, ma lo può diventare nel momento in cui se ne riconosca l’interesse per un pubblico; la “notiziabilità” di un avvenimento possiede un carattere derivato e relativo, non ha una natura intrinseca al fatto in sé. Dunque, tutto fa notizia nel momento stesso in cui lo si decide, e di solito, sono le minoranze o gli atteggiamenti meno frequenti che ben si prestano a questo scopo, che scivolano senza difficoltà nell’ingranaggio della fabbricazione di notizie, attirando l’interesse della maggioranza. L’omosessualità rientra fra i comportamenti infrequenti della società, ma solo ed esclusivamente a causa delle consuetudini e delle regole che la società stessa ha riconosciuto arbitrariamente come standard e poste come modello a cui aspirare.
In questo contesto, tutti gli esempi di vita e di relazioni che si discostano dal modello fondamentale radicato, ad esempio, quello della famiglia tradizionale composta da una donna eterosessuale e un uomo eterosessuale che si uniscono in matrimonio e generano un certo numero di figli, rappresentano una devianza che la maggioranza cerca più o meno inconsciamente di censurare. Se dovessimo dipingere uno scenario utopico, in cui l’atteggiamento più frequente sopraelevato a consuetudine riconosciuta, fosse, invece, l’omosessualità; l’eterosessualità, in questo caso, rappresenterebbe la devianza, l’anomalia. Non sono gli atteggiamenti, non è la natura ad autodeterminarsi come facente parte di una maggioranza accettata o di una minoranza isolata, ma bensì, sono le sovrastrutture che stabiliscono, definiscono e inevitabilmente limitano. Come scrisse il famoso romanziere, Louis-Ferdinand Céline: “D’altronde, bisogna pure che succeda prima o poi, che ti classificano”.
Durante la nostra riflessione abbiamo avuto modo e piacere di rivolgere alcune domande ai membri di associazioni che oggi lottano affinché l’omosessualità venga riconosciuta come un comportamento accettato dalla maggioranza, che sia ritenuto come parte fondamentale del nostro retaggio culturale, carattere insito e inscindibile della nostra società anziché elemento disturbante concepito come estraneo. Abbiamo incontrato Rita Mura, membro dell’Associazione Genitori Di Omosessuali (Agedo) costituita da genitori, parenti e amici di uomini e donne omosessuali, bisessuali e transessuali, che dal 1993 si impegna per l’affermazione e il riconoscimento dei loro diritti civili e della personalità. Rita Mura si è distinta in quest’ultimo periodo per essere l’autrice di una lettera aperta a tutti i genitori che scoprono un figlio omosessuale; l’intervento è apparso sulle pagine del quotidiano ‘Libertà’ l’8 novembre e in breve ha fatto il giro del web attraverso blog e social network.

Perché al giorno d’oggi si parla ancora di omosessualità, come un tema scandaloso, o in grado di rappresentare un tabù? Considerando il lungo percorso che è stato fatto culturalmente da quando l’omosessualità veniva considerata sia una malattia che un reato.

“Per quanto riguarda l’Italia, l’omosessualità non è mai stata considerata un reato. Era stata depennata anche dal codice Rocco, perché, semplicemente, per i gerarchi fascisti, gli italiani non potevano essere omosessuali, per cui l’omosessualità non esisteva. Purtroppo, con l’avvento della democrazia nulla è cambiato, anzi, non essendoci un reato prescrivibile, questo, paradossalmente, ha in qualche modo danneggiato il percorso di riconoscimento degli omosessuali da parte della società. Non dovendo combattere enormi battaglie sul piano pubblico, l’omosessualità è come rimasta nell’ombra. Consideriamo anche il fatto che noi, culturalmente, abbiamo una forte influenza da parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, il cui retaggio impone la condanna dell’omosessualità come malattia o, peggio, depravazione. Sto parlando al presente perché, nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità l’abbia debellata dalle malattie mentali nel 1990, purtroppo, esistono ancora delle organizzazioni che dichiarano di poter ‘guarire’ gli omosessuali facendoli tornare eterosessuali. L’omosessualità più che suscitare scandalo incute paura, sentimento dettato da una profonda e dilagante ignoranza. La gente preferisce non sentirne parlare e, qualora se ne parli, si tende a produrre più che altro disinformazione. Con queste premesse, non sorprende che l’omosessuale venga visto come una ‘minaccia’, una persona contro natura. Lei parla di lungo percorso culturale, diciamo che rispetto a qualche decennio fa qualcosa è cambiato, soprattutto nelle altre nazioni, dove addirittura una coppia omosessuale si può sposare e i diversi orientamenti sessuali sono riconosciuti e vissuti nella normalità della vita quotidiana. Per quanto riguarda l’Italia, il cammino è ancora lungo; le coppie omosessuali per lo Stato sono considerate dei fantasmi, non esistono in quanto non sono giuridicamente riconosciute, non hanno alcun diritto. Due persone dello stesso sesso non possono passeggiare serenamente per le strade mano nella mano per paura di essere aggrediti o derisi; sul luogo di lavoro possono essere licenziati (ovviamente esiste una legge che lo vieta, per cui il motivo dichiarato ufficialmente non è quello dell’omosessualità, anche se ci sono tutti i presupposti), sono persone a cui viene in qualche modo condizionata la vita. Si parla ancora di “scelta”, ma chi è così masochista da scegliere un percorso di vita così sofferente e difficoltoso? Pensi che non si è ancora riusciti a fare una legge con l’aggravante per i reati contro l’omotransfobia. Per tutti questi motivi si parla di omosessualità e bisogna parlarne fino a che non diventi ‘normalità’, finché non si confonda con lo sfondo proprio come l’eterosessualità”.

“Meglio delinquente che frocio”. La scelta di non dichiararsi ai genitori, potrebbe essere vista come una vigliaccheria, come il ripudio di se stessi; ma basta scavare un po’ sotto le apparenze di questo comportamento per capire come sia un semplice gesto d’amore filiale. Menzogna o cruda verità? Come esorcizzare lo spauracchio del coming out? E come cambia la vita di un genitore che scopre l’omosessualità del figlio? Avrebbe davvero voluto saperlo?

“Non parlerei di vigliaccheria, ma di autodifesa: piuttosto che vedersi rifiutati dai propri genitori, si tace, si preferisce mentire, soprattutto, in condizioni di dipendenza finanziaria. Ma attenzione che a lungo andare è un boomerang contro se stessi, le conseguenze a livello psicologico sono pesanti. Credo che a tutti nella vita capiti di dover mentire, anche a scopo di bene, se questo si protrae per un breve periodo, la tensione psicologica la possiamo gestire; al contrario, dover mentire per anni è un peso enorme da sopportare. Come, del resto, è angosciante per un figlio vedersi rifiutato dai genitori: non meno di un anno fa, un ragazzino di 21 anni di Pavia si è suicidato non reggendo il peso della sofferenza causata dal rifiuto dei suoi genitori. Perché non se ne parla? Perché l’omosessualità fa ancora paura, e allora meglio tacere; credo che la società potrebbe essere pronta per il cambiamento, ma esiste ancora molta ignoranza. Lei mi chiede come esorcizzare lo spauracchio del coming out; bella domanda, magari avessi una risposta. Penso che la cosa migliore per un omosessuale sia, innanzitutto, aver fatto chiarezza dentro di sé ed essere consapevole e sereno di quello che si è, così da poter aiutare il genitore a sciogliere i dubbi e le paure. Un genitore che scopre l’omosessualità del figlio si sente crollare il mondo addosso e, probabilmente, all’inizio non avrebbe voluto saperlo, non è facile spiegare quello che passa per la sua testa: delusione, rabbia, dubbi, paure, frustrazioni, paura di quello che potrebbe dire la gente se lo venisse a sapere. Il percorso per affrontare questa ridda di sentimenti è certamente doloroso e, individualmente, più o meno lungo. La cosa più importante è guardarlo negli occhi, per riscoprire la persona che si è sempre amata nella sua totalità e dargli quel sostegno di cui avrà bisogno per affrontare questa società omofoba. Quello che cambia nella loro vita dipende da loro, già l’avere capito che l’omosessualità è una cosa normale e naturale è un passo verso l’auto accettazione e il consequenziale cambiamento della nostra società”.

Lei è l’autrice della lettera aperta ai genitori che scoprono un figlio omosessuale. Le chiediamo di raccontare la sua esperienza diretta, qual è stata la prima reazione dopo il coming out e cosa ha ispirato l’odierna accettazione e la voglia di continuare a combattere per questa causa, entrando a far parte dell’associazione Agedo? “Se scoprissi che mio figlio è gay me lo tengo, cosa posso farci? Un figlio mica lo si può buttare?” Come commenterebbe Lei, questo genere d’affermazione?

“La mia esperienza potrebbe dirsi anomala, se confrontata con le altre esperienze di genitori dell’Agedo. Mio figlio aveva 15 anni, ha lasciato delle tracce su internet (chat tra omosessuali), in modo che noi genitori lo scoprissimo. Premetto che in famiglia non si sono mai fatti discorsi omofobi e che consideravo l’omosessualità un comportamento naturale. Mio figlio in quel periodo era molto nervoso e irascibile, sinceramente avevo paura che si drogasse; una sera io e mio marito abbiamo chiesto spiegazione di queste chat, lui non ci ha fatto finire il discorso, impedendoci anche di fargli la fatidica domanda e ci ha detto: ‘Sì, sono gay, avete dei problemi?’, spiazzandoci per la tranquillità e serenità con le quali lo ha affermato. Mi ricordo che, con sollievo, ho pensato: ‘Per fortuna non è drogato’. La mia risposta è stata: ‘Noi, no. Ma forse tu, visto che non ce ne hai parlato direttamente’. ‘Vedi, mamma – mi ha detto – un conto è parlare di persone che non si conoscono o comunque al di fuori della famiglia, un altro è quando si tratta di tuo figlio’. Io l’ho guardato negli occhi e ho visto mio figlio, ma chi se ne importa che orientamento ha? L’importante è che lui sia felice. Per me è stata una cosa naturale fin da subito. Certo, mi è rimasta la paura che possa essere aggredito, ma la faccio convivere con le altre paure che di solito hanno tutte le mamme in generale: che non capiti mai niente di male ai propri figli, come gli incidenti o altro. Da allora ho letto libri, poiché sapevo ben poco della loro realtà, ho conosciuto i ragazzi dell’Arcigay provinciale, mi sono resa conto che, anche nel mio piccolo, potevo essere d’aiuto come attivista: scrivendo articoli come quello che è stato pubblicato sul quotidiano ‘Libertà’, organizzando eventi per far capire alla gente che l’omosessualità è uno degli orientamenti sessuali e non una scelta di vita, mettendomi a disposizione dei genitori per confrontarci. Si calcola che il 5 per cento della popolazione sia omosessuale, se insieme a loro ci fossero solamente i loro genitori oggi non dovremmo ancora parlare di diritti per gli omosessuali. ‘Se scoprissi che mio figlio è gay me lo tengo, cosa posso farci? Un figlio mica lo si può buttare?’. Come commenterei quest’ultima provocazione? Beh, che se ho due genitori così cosa posso farci, me li tengo! I genitori non si possono scegliere. Vorrei poter chiedere ai genitori che la pensano così dove sia andato a finire l’amore per i figli”.

Per lenirei tratti generalisti delle nostre considerazioni abbiamo voluto inquadrare sotto la lente d’ingrandimento la situazione siciliana, intervistando anche il Presidente del Arcigay (Associazione gay e lesbiche italiana) di Palermo, Daniela Tomasino, alla luce dei diversi eventi e iniziative che ogni mese l’Associazione e i suoi volontari portano avanti con impegno e serietà.

Cosa risponde a chi accusa le persone omosessuali di auto emarginazione, data la frequentazione dei cosiddetti “locali gay”; una sorta di ghettizzazione autoimposta per evadere da una società ostile?

“Non condivido. I gay, le lesbiche e le persone trans vivono ‘nel mondo reale’: lavorano, fanno la spesa, vanno a mangiare una pizza, molti vanno anche a messa… Insomma, vivono nello stesso mondo degli etero, o meglio, in un mondo che molto spesso è eteronormativo, ovvero che dà per scontato che tutti debbano essere eterosessuali. Questo vale sia per le rappresentazioni simboliche che, nel quotidiano, per i servizi e i rapporti tra Stato e cittadini. Per fortuna, grazie alla determinazione di alcuni, esistono anche degli spazi in cui essere eterosessuali non è obbligatorio, in cui poter ad esempio, leggere riviste o libri di letteratura omosessuale, vedere film dove sono rappresentate persone LGBT (Lesbiche Gay Bisessuali e Transgender), o semplicemente, tenere per mano il/la proprio/a partner senza rischiare violenze o atti di bullismo”.

Cosa dovrebbe cambiare, secondo lei, per far sì che le cose cambino? Perché tanta resistenza verso un concetto tanto semplice, puro, quasi banale, come l’attrazione nei confronti di un’altra persona. In questo contesto, quale ruolo potrebbero avere i mass media e l’istruzione per cercare di modificare, certi stereotipi, certe cornici interpretative che sembrano come fossilizzate nel nostro retaggio culturale ?

“Occorre una rivoluzione. Un cambio di paradigma completo che riporti in equilibrio la capacità delle persone di fronteggiare le differenze. Un paradigma che sostituisca la cooperazione alla competizione, l’accoglienza alla diffidenza. Servono leader politici onesti, che sappiano dare il buon esempio, scuole pubbliche con maggiori mezzi, giornalisti motivati e indipendenti, imprese che mettano l’etica al centro del business. Molte persone sono imprigionate in stereotipi che non hanno nessuna base razionale e nessun riferimento alla realtà: alcuni, ad esempio, arrivano a definire l’omosessualità come ‘innaturale’ arrivando a ignorare il fatto che da una parte loro stessi vivono in un contesto che di naturale non ha nulla (si spostano utilizzando macchine, vivono in appartamenti anziché in grotte, etc.), e che l’omosessualità esiste non solo tra gli esseri umani, ma anche tra gli altri animali. Quel che occorre, di fronte ad assurdità come queste è maggiore onestà intellettuale e capacità di confrontarsi con la realtà senza preconcetti”.

Recentemente, a Palermo, è stato raggiunto un importante traguardo: l’approvazione del registro delle unioni civili, “convivenze basate su vincoli affettivi che si protraggono da almeno un anno presso l’ufficio comunale competente, senza discriminazioni di razza, etnia, sesso, genere, handicap ed orientamento sessuale”. Sintomo che finalmente qualcosa sta cambiando?

“È sintomo che qualcosa sta cambiando. Otto anni fa una mozione simile è stata bocciata, e una simile attenzione nei riguardi della nostra comunità era impensabile. Ma siamo davvero troppo lontani con il resto dell’Europa, e un registro che ha solo un valore simbolico non riesce a suscitare entusiasmo. Vogliamo pieni diritti e dignità, e li vogliamo subito. Di conseguenza servono riforme dei regolamenti comunali, delle leggi regionali, delle leggi nazionali che riescano davvero a incidere nella vita quotidiana delle persone omosessuali e trans”.

Di recente è stato inaugurato ‘La migration’, uno sportello di supporto per migranti LGBT. Da cosa pende spunto l’idea di uno sportello dedicato proprio alle persone migranti? E quali sono, nello specifico, le attività di cui si occupa ‘La migration’ ?

“Per noi è un grande traguardo. Abbiamo rifondato Arcigay Palermo tre anni fa, e abbiamo cercato sin da subito di essere un’associazione di servizio alla comunità LGBT. Dapprima con lo sportello di consulenza psicologica, poi con la consulenza legale e l’informazione sulle malattie sessualmente trasmissibili, con la socializzazione, con corsi di formazione (il primo in Lingua dei Segni Italiana, grazie al nostro gruppo LGBT Sordi). Adesso questo sportello, che è nato dall’esperienza e dalla motivazione di alcune nostre socie rumene, che lo hanno ideato e fortemente voluto. Lo sportello, gestito insieme all’associazione DiARiA e all’UMIP, Unione Mediatori, è il terzo in Italia, e l’unico a sud di Milano, e si propone di colmare un gap nei servizi di accoglienza dei migranti, favorendo l’accoglienza e la difesa dei diritti dei migranti LGBT. L’obiettivo è di creare una struttura che sia non solo uno sportello in grado di accogliere, di fornire informazioni e sostegno (ad esempio, sull’asilo per gay, lesbiche e trans che nel Paese di origine rischiano la morte o il carcere), ma che sia anche di stimolo e di ‘movimentazione’ tra le comunità dei migranti e la comunità locale e nei confronti delle istituzioni e delle associazioni. Come sportello sarà aperto tutte le domeniche pomeriggio presso i locali del Blow Up, il circolo Arci che ci ospita gratuitamente, in piazza Sant’Anna, 18. La responsabile è Anna Vasile”.

Ringraziamo della disponibilità Rita Mura e Daniela Tomasino

Le conclusioni, a voi.

 

 

Noemi De Lisi

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