Un boss a Bollywood Quando la mafia parla hindi

India è il settimo Paese più grande al mondo, con un numero di abitanti secondo solo alla Cina. Varie riforme hanno portato la sua economia a crescere in modo quasi sconsiderato secondo i canoni degli Stati europei e nord-americani. Non a caso, gli scrittori William Nobrega e Ashish Sinha la considerano come il prossimo super-potere mondiale, gli Stati Uniti della prossima decade.

I miracoli economici, però, non sono elargiti senza controindicazioni. No free lunch, nessun pasto gratis, gridano spesso gli economisti, compiacendosi. La tigre indiana è come un bambino in piena fase di crescita che indossa gli stessi vestiti. Le scarpe iniziano a far male, la maglietta si strappa, i pantaloni sono troppo stretti. Nel nostro caso, i vestiti sono una società che non riesce ad adeguarsi in fretta ai cambiamenti. E allora le scarpe strette si traducono in un aumento della diseguaglianza economica, la maglietta in un isolamento delle periferie e delle campagne, i pantaloni in corruzione delle classi politiche allettate dai nuovi affari.

Il crimine organizzato sa sfruttare queste problematiche fasi di transizioni. Nel trambusto e nella confusione sociale è capace di trovare il suo ordine, amalgamarsi e fondersi con la società di cui è parassita. Ed è così che è accaduto con la D-Company.

L’organizzazione è stata fondata da un certo Dawood Ibrahim, figlio di un poliziotto dello stato indiano del Maharashtra, agli inizi degli anni ‘70. In un’intervista dichiarava che da ragazzo avrebbe voluto diventare un soldato, morire per la propria patria. L’odore dei soldi facili gli fece cambiare idea presto. Quando ancora l’ondata di liberalizzazione faceva i primi passi in India, la sua D-Company fungeva già da multinazionale nel mercato dei beni illeciti. Tale è stato il successo che la lista Forbes dei personaggi più potenti al mondo mette Dawood al 57° posto. E’ sopra a uomini come l’amministratore delegato della Apple Tim Cook, il presidente russo Dmitry Medvedev e il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda.

Dal 1985 il boss gestisce l’azienda dai grattacieli di Dubai. Le forze dell’ordine indiane e internazionali hanno sempre fatto pressione sul piccolo stato per la sua estradizione, ma pare che a qualche alta sfera locale piaccia tenersi stretto Dawood e i suoi tesori.

Ultimamente si parla poco della D-Company, quasi come fosse inutile menzionare un gruppo ritenuto invincibile e troppo concatenato con l’economia internazionale per scomparire. L’unica notizia che ha attratto l’attenzione dei media è la scoperta di una nuova rotta usata per introdurre soldi falsi nel distretto indiano di Andhra Pradesh.

E così, il pubblico si scorda che il fratello di Dawood, Anees Ibrahim, si occupa dello spaccio di droga e di omicidi a contratto, per il valore di diverse decine di miliardi di dollari. Ci si scorda che la mano della gang posa pesantemente sull’economia legale. Che possiede una trading company a Dubai, il centro commerciale Diwai e parte del Diamond Rock Hotel di Mumbai, l’agenzia di viaggi Suhail Travel, le azioni della East West Airlines.
Ci si dimentica, soprattutto, che la D-Company ha fatto e continua a fare la maggior parte delle sue fortune investendo nell’industria del cinema. Sì, del cinema.

La chiamano Bollywood, e produce perfino più film della più familiare Hollywood. A Bollywood non esistono grandi produttori. Niente Paramount Pictures, nessuna 21° Century Fox Productions. Bollywood è una giungla di piccoli e medi imprenditori a cui nessun investimento è garantito. Gli accordi si fanno spesso con una stretta di mano, e i film sono prodotti in pochi giorni. La sete di risorse finanziarie e la fame di profitto ha creato una simbiosi tra i produttori cinematografici e la mafia indiana. I mafiosi diventano gli usurai del grande schermo, richiedendo spesso un ritorno d’investimento tra il 60 e il 100 per cento. Si stima che il 40 per cento dei film usciti abbia origine da queste fonti di denaro.

Con l’affare sembra che tutti ci guadagnano, perlomeno fin quando i patti sono rispettati. Altrimenti, scatta la violenza. Nel 1997 il regista Mukesh Duggal fu ucciso con 18 colpi di pistola. Fu trovato con la faccia a terra nella propria urina. Nel 2000 il collega Rakesh Roshan è miracolosamente sopravvissuto a un attentato, dopo essersi rifiutato di collaborare alla produzione di un film. Dal 2002 fino alla sua morte il famoso attore Amrish Puri è stato sotto protezione, essendo stato minacciato di per non aver voluto pagare alla cosca delle “tasse” sulla sua popolarità.

Il boss protagonista del musical Bombay Dreams ripete sempre il mantra: «Vi starò guardando. Sempre». Lo fanno anche i gangster reali. Non da un palcoscenico, ma da una poltrona celata tra i grattacieli più lussuosi del pianeta. Non battiamogli le mani.

 

[Foto di Christian Haugen]

Stefano Gurciullo

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