“Un bellissimo novembre” , forse un po’ troppo indolente

Titolo: Un bellissimo novembre
Autore: Ercole Patti
Adattamento: Gaetano Savatteri e Luigi Galluzzo
Regia: Mario Missiroli
Scene e costumi: Lorenzo Ghiglia
Musiche: Benedetto Ghiglia
Luci: Franco Buzzanca
Interpreti: Donatella Finocchiaro, Federico Grassi, Nellina Laganà, Giovanni Tuzza, Alberto Bonavia
Produzione: Teatro Stabile di Catania

La scelta del testo inaugurale della stagione del Teatro Stabile di Catania, che si apre festeggiando il cinquantenario di attività, è ricaduta significativamente sul capolavoro di un nostro conterraneo, Ercole Patti, classico della letteratura novecentesca, a volte però dimenticato dalla critica. D’altronde lo Stabile etneo ha sempre puntato alla valorizzazione delle proprie radici letterarie e culturali, che affondano nell’humus isolano.
 
Il lavoro, di produzione dello stesso Teatro, rappresenta anche un’occasione per lanciare delle proposte di spettacoli, delle creazioni che nascono in esclusiva a Catania e dalla nostra città partono per un tour promozionale in tutti i teatri stabile d’Italia. È questo l’augurio che lancia il presidente Pietrangelo Buttafuoco.
 
Il regista Mario Missiroli, sulla base della riduzione ed adattamento del testo scritto a quattro mani da Luigi Galluzzo e Gaetano Savatteri, prende in prestito una chiave di lettura “brancatiana”: un amore molto spiccatamente erotico alla maniera di Vitaliano Brancati. Le promesse sono dunque quelle di accendere un novembre un po’ uggioso con una sceneggiatura “focosa”, ma l’esordio è stato un po’ tentennante a giudicare dalla risposta in sala, dove il pubblico è apparso assopito in sintonia con lo stato di torpore che la stagione autunnale suggeriva. Forse perché l’esordio era troppo carico di tensioni, andando a coincidere con il debutto anche della nuova stagione teatrale. Tuttavia, a ritmo di repliche la compagnia teatrale si è affiatata, riscaldando anche la platea, che ha preso a gradire un’opera tutta nostrana.
 
Il passaggio dal testo al palcoscenico ha mantenuto il background del racconto di Patti, lirico e squisitamente narrativo, ma ha riempito quelle pagine descrittive del suo romanzo con la tecnica dei flashback. La trasposizione comporta un gioco di doppia scena, dove un piano rialzato sul palco, in penombra, ci rivela quello che solo la protagonista Cettina (Donatella Finocchiaro) ed il giovane defunto Nino (Giovanni Tuzza) possono conoscere: l’oscuro segreto di una relazione consumata nella stanza del peccato. Una relazione clandestina e incestuosa tra un sedicenne alla prima cotta e una zia ventottenne e sposata, ma dal letto un po’ troppo generoso. Nella realizzazione si legge quasi un’esigenza di discolpa nei confronti di una giovane donna, che sembra aver commesso il solo peccato di amare. Alla sua maniera, leggera, e più di un uomo contemporaneamente, se non addirittura un ragazzino, che è il figlio della sorella.
 
I temi trattati o semplicemente rievocati sono tanti, tuttavia. Non solo un amore proibito seppur legittimato, se non fosse per la sua orribile fine (presunto suicidio del ragazzino), ma anche la disamina dello stridente contrasto dell’eros inteso come disarmante sincerità di pulsioni nell’adolescenza e l’accezione tutta carnale che acquisisce nel mondo degli adulti, la grande crisi finanziaria del ’29 ed ancora i conflitti interni ad una famiglia dissestata e la loro incapacità di comunicazione che diventano metafora dell’imminente tragico olocausto del secondo conflitto mondiale (periodo storico in cui è trasposta la vicenda). Ma, ci tiene a precisare il regista, il tutto senza alcuna forma di moralismo.
 
La scenografia in maniera molto immediata presenta una casa immobilizzata, disabitata, desolata, “che puzza di vecchio e di polvere”, ripresentata dopo dieci anni ma nello stesso mese. “Novembre, tempo di vendemmia, sole e odore del mosto”. Come se ogni cosa parlasse, piangesse un lamento. Anche la musica, in coerenza con l’immobilismo delle scene, sembra una geremiade in sottofondo.
 
Sul palco gli attori si succedono in maniera scandita e sequenziale; buona l’interpretazione di Federico Grassi (nel ruolo dello storico amante Sasà Santagati) e della protagonista Donatella Finocchiaro, gemma della nostra città, che riesce a portare in scena la sua preparazione cinematografica, sebbene ciò la trasporti a volte ad una pronuncia “denaturalizzata”. Degna di nota, infine, la partecipazione alla rappresentazione di Alberto Bonavia (figlio del Consigliere), dottore in lingue e letterature straniere, che da questo monastero ha spiegato le ali alla volta della sua massima aspirazione e che da questo spettacolo sembra voler decollare.

Benedetta Motta

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