Umberto Eco non era solo – indiscutibilmente – l’intellettuale italiano più noto nel mondo (e non per caso), ma è anche l’inventore della mia disciplina – o almeno colui che la incarnava agli occhi del pubblico. Quando, fuori da ambiente accademico, mi chiedevano cosa fosse la semiotica, provavo a dare qualche definizione generale. Ma infine, alla vista dello sguardo sperso dell’interlocutore, mi risolvevo sempre a dire «quella cosa che fa Umberto Eco». E chi mi ascoltava era spesso soddisfatto di questa risposta, che equivaleva a dire: qualcosa di difficile, serio e interessante, per cui bisogna sapere un sacco di cose. Sicché un po’ di quella luce sua splendeva, per riflesso, pure su di me.
Posso dire che leggerlo mi ha cambiato la vita negli anni in cui decisi di provare a fare decentemente quello che faccio adesso. Semiotica e filosofia del linguaggio, I limiti dell’interpretazione e Kant e l’ornitorinco (tra gli altri), ancora oggi, sono i miei punti di partenza, e quelli che propongo agli studenti. Ed era – è ancora, e sempre sarà – bello ritrovare l’autore-modello Eco nei libri scientifici, dopo aver letto i romanzi, o i divertissement micidiali (i Diari minimi su tutti), e aggiustarne i dettagli ad ogni nuova lettura.
Non posso dire, invece, che lo conoscevo bene – e ho passato anni a rammaricarmene. L’ho visto poche volte (direi anzi pochissime – visto il mestiere che faccio) – l’ultima di recente, poco più di due mesi fa. Quello che ho capito, nelle mie poche conversazioni con lui, è che non riusciva a parlare delle cose serie senza scherzare, e viceversa. Così fece una volta a Cosenza (e, troppo seriosamente, un po’ me ne adontai), così fece a Milano. Messi, per caso, l’uno di fronte all’altro a un aperitivo dopo la presentazione di un libro cui entrambi abbiamo collaborato, dovevamo discutere in qualche modo. E il modo lo trovammo. Gli chiesi se sarebbe mai tornato a Cosenza, e lui disse di no schernendosi, dapprima scherzando sul fatto che l’ultima volta l’avevano fatto mangiare e bere troppo – e poi ammettendo francamente di essere anziano e stanco. Ma a me non sembrava. A me sembrava un ottantaquattrenne molto arzillo – molto più arzillo di quanto io non sia stato mai. Mai e poi mai avrei immaginato di ricevere questa notizia così presto – ma si sa che ci sono mali che non perdonano nemmeno chi è molto più giovane.
Posso solo immaginare – ma nitidamente – che perdita sia per coloro che, facendo lo stesso mestiere, abbiano avuto la fortuna di essergli amici. Negli anni, ne ho conosciuti molti – e sono in sintonia soprattutto con i suoi più giovani allievi, che sembrano aver ripreso alcune delle sue prime lezioni: anzitutto l’idea che la semiotica sia impresa filosofica, e poi l’idea che Peirce e lo strutturalismo sono tutt’altro che inconciliabili, se ci si prende la briga di studiarli davvero. So che in tanti sono affranti davvero, perché hanno perso qualcuno – non solo qualcosa – che li aveva fatti ciò che sono.
So che da oggi riprenderanno a lavorare ancora di più e meglio, all’impresa editoriale che lui lanciò prima di morire (l’entusiasmo e l’impegno per La nave di Teseo, in quella serata milanese, erano palpabili) e soprattutto all’impresa scientifica e culturale che ha nella semiotica il suo centro, ma con essa non s’identifica: l’idea di una cultura potenzialmente a disposizione di chiunque voglia cercarla – ma lo voglia davvero. Charles Peirce – il suo, il nostro autore – parlava di un «Eros scientifico»: la voglia di imparare che è bisogno insaziabile (come del cibo, o del sesso). La cultura non è mai «alta» o «bassa» (e fu lui che introdusse quest’idea nell’accademia italiana), ma si nutre comunque di dedizione e fatica, condita con dosi massicce di umorismo. Leggere tanto, scrivere tanto, imparare a memoria, studiare, riflettere – senza smettere di divertirsi. Non c’è altro. Anche se non sei Umberto Eco.
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