«Signor Ulisse»: tocca chiamarlo così, «Signor Ulisse». Perché Ulisse il suo nome vero non può più dirlo, non da quando ha assistito a un omicidio di camorra e ha deciso di raccontarlo alle Forze dell’Ordine, non da quando è un testimone di giustizia.
Lo intervistiamo a Catania, a margine di un incontro organizzato dall’associazione Rita Atria sul valore della testimonianza nella lotta alla mafia. Cammina sotto una pioggerellina fitta, fuma un sigaro sottile, aromatizzato, e parla con voce misurata.
«Era il 15 ottobre del 1990, ero in automobile con mia moglie, sulla tangenziale di Napoli. Avevo fatto da poco un viaggio in Sicilia, era passato circa un mese dall’omicidio del giudice Rosario Livatino, e io, sentendo la storia di Pietro Nava, che ha assistito a quell’uccisione e in seguito l’ha descritta agli investigatori, ero rimasto molto colpito. “Bravo”, pensai, “ha fatto la cosa giusta”. Non sapevo che mi sarebbe toccata la stessa sorte».
Ulisse guidava e la moglie gli era accanto, quando hanno visto un uomo zoppicante e ferito affannarsi, scappare da un altro uomo con in mano un’arma da fuoco. «Avevo capito cosa stava succedendo e ho fatto una brusca manovra, ho tentato di investire il tizio armato, ma sono stato troppo lento. Il pensiero di fare del male a qualcuno mi atterriva, ho frenato di colpo». E ha visto coi suoi occhi il resto: l’uomo ferito che viene raggiunto, atterrato e finito dall’altro, che gli spara a sangue freddo e fugge via a piedi.
«Non sapevo che qualcun altro che si trovava lì per caso, il fratello di quello che scappava, era stato ammazzato da pochi istanti. Si trattava di una vendetta, di un agguato progettato per un regolamento di conti. L’assassino era stato chiamato a “mettere in regola” una questione di otto anni prima»: la camorra ha la memoria lunga.
«A cambiare tutta la mia vita ci ho messo pochi attimi, quelli che sono serviti a me e mia moglie per guardarci in faccia e decidere di andare a denunciare tutto», e lo sguardo tradisce l’emozione. Quindici giorni dopo, l’assassino è stato arrestato. Poi il processo e la condanna all’ergastolo in via definitiva: «Non gli hanno dato nessuna attenuante, ma lui non ha mai parlato, non ha mai fatto nomi di chi era con lui, non ha mai confessato. Mi sono informato sulla sua vita, l’ultima volta l’anno scorso: è ancora in galera, e non era affatto una cosa certa visto come vanno queste cose in Italia».
Perché «queste cose» in Italia vanno in maniera strana: «Nel 1996 avevo due certificazioni, una della procura di Napoli e una di quella di Santa Maria Capua Vetere. Entrambe dicevano che ero in pericolo, ma mi hanno tolto lo stesso tutte le protezioni che mi spettavano in quanto testimone di giustizia. Fino al ’99 ho mandato avanti un braccio di ferro con lo Stato, poi ho mollato: mi sono trovato un altro lavoro, una nuova città, un’altra casa, un mutuo che sto ancora pagando, una vita che tenta di essere normale». Nel 1990, Ulisse aveva una casa di proprietà, un buon lavoro, fisso, era un sindacalista di belle speranze, che voleva dei figli con la moglie che amava. «I figli li ho avuti» e aggiunge anche l’età. Poi ci ripensa, «potrebbe essere troppo pericoloso divulgarla»; pure l’impegno col sindacato resta, «in ufficio, tra quattro mura, non posso farmi notare, ogni tanto devo pure commettere degli errori volutamente, altrimenti rischio di mettermi in mostra»; al suo fianco c’è ancora la moglie, «che si è ammalata: soffre di depressione ansiosa, ha cresciuto i nostri figli come una semi-invalida. Non abbiamo una vita, non riusciamo a integrarci, non possiamo farci nuovi amici, perché non puoi costruire dei rapporti umani se li basi su menzogne».
Qualcuno con cui è in contatto c’è, però: «Sono gli altri testimoni di giustizia, una settantina in totale, cinque-sei dei quali sono come me, cioè persone che un giorno sono uscite di casa, del tutto casualmente hanno visto qualcosa che non avrebbero dovuto vedere, e hanno deciso di non voltarsi dall’altra parte». Li ha conosciuti quando chiunque sbatteva loro la porta in faccia, «tranne un vecchio parlamentare, Elio Veltri, che ci ha aiutati e ci ha fatto scoprire che avevamo tutti lo stesso problema: ci sentivamo usati e buttati via, accomunati ai collaboratori di giustizia, trattati peggio di una malattia rara».
Solo che dalle malattie si guarisce, passano, hanno un lieto fine. Chiediamo a Ulisse se un lieto fine, per sé, lo vede. «No, non lo vedo, non per me», e gli occhi si fanno lucidi. «Per i miei figli, magari sì. Perché magari loro riusciranno a vedere la creazione di quel movimento di massa che servirebbe per cambiare le cose. Pensiamo a chi ha fatto il risorgimento: sono morti tutti giovani e non hanno raccolto i frutti di quello per cui combattevano. Noi sì, e non li stiamo sfruttando».
«Se la testimonianza, da atto straordinario diventasse una cosa normale, io potrei tornare a casa mia, potrei vivere una vita decente», ma fintanto che la gente «ha bisogno di eroi da applaudire mi tocca questo destino». Lo sceglierebbe di nuovo? «Ho sempre creduto che bisogna fare la cosa giusta in ogni circostanza, e ci credo ancora. Quella era la cosa giusta».
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