Sono passati quasi dieci anni dal 18 febbraio del 2008, quando tre persone incappucciate entrano, pistola in mano, nella gioielleria Pierre Bonet di Nicolosi, in via Etnea. L’obiettivo è quello di rapinare l’attività commerciale ma il colpo si trasforma nel giro di pochi minuti in una tragedia. Due malviventi vengono uccisi dal titolare e il terzo si salva per miracolo. Il maestro orafo, Guido Gianni, impugna una Berretta calibro 9, registrata a nome della moglie, apre il fuoco contro Davide Laudani e Sebastiano Catania. Il primo muore all’uscita della gioielleria mentre il secondo arriva con il cuore fermo all’ospedale Cannizzaro. Per il duplice omicidio adesso il commerciante etneo andrà a giudizio, come deciso dal giudice Fabio Di Giacomo Barbagallo su richiesta della procura di Catania. L’uomo è accusato anche del tentato omicidio del terzo componente del commando, Fabio Pappalardo, che quel giorno rimedia un colpo di pistola alla gamba sinistra e una frattura a tibia e perone ma si salva grazie a una passante che lo accompagna in macchina alla guardia medica.
Per l’unico accusato nella vicenda, durante le udienze preliminari, era stata anche chiesta una perizia psichiatrica, con l’obiettivo di valutare la sue capacità «d’intendere e volere» durante le fasi del tentativo di rapina e se la sua mente fosse stata offuscata dall’aggressione alla moglie, che si trovava insieme a lui dentro il negozio. Il referto ha confermato la tesi dei magistrati e Gianni adesso dovrà fare i conti con lungo processo. Durante quella giornata di febbraio l’orafo è a lavoro all’interno di un laboratorio attiguo alla sala vendite. In quella stanza, mentre sono presenti la moglie e un cliente, arriva all’improvviso un giovane.
Il ragazzo non viene identificato come un rapinatore e la proprietaria gli apre la porta. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri di Paternò in un documento dell’epoca, l’uomo nel giro di pochi istanti riesce a bloccare la moglie del titolare, favorisce l’ingresso dei due complici e che iniziano a malmenarla e minacciarla con una pistola. L’arma però è una semiautomatica a salve senza il tappo rosso identificativo. Nel trambusto che si crea nella gioielleria l’orafo resta chiuso in laboratorio, con la porta che non può essere aperta dall’interno. Decide così di sparare due colpi in aria ma i malviventi non desistono e aprono quel passaggio blindato per cercare di entrare nella sala.
La colluttazione continua e, secondo gli inquirenti, Gianni spara altri colpi per mettere in fuga i malviventi. Uno di loro però continua a bloccare la signora puntando la pistola giocattolo verso l’orafo. Il commerciante spara ancora una volta e il ladro prova a fuggire. Alcuni colpi, da quello che si legge nella richiesta di rinvio a giudizio, vanno a segno. Laudani viene colpito al volto e al braccio mentre un terzo proiettile lo raggiunge alla schiena «quando si trovava di spalle in corrispondenza dell’uscio d’ingresso della gioielleria». Subito dopo viene ucciso Catania, che arriverà cadavere al Cannizzaro: il primo colpo lo prende al torace e gli altri due nella parte bassa della schiena. L’unico a riuscire a fuggire è Pappalardo nonostante l’orafo «abbia compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionarne la morte». Nel processo sono state riconosciute come parti offese e ammesse come parti civili, oltre allo stesso Papparlardo, il fratello di Catania, la moglie e i due figli. Con loro ci sarà anche il padre di Laudani.
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