Ture Most lancia Camurrìa, il nuovo singolo incazzato «I ragazzi cantano le mie canzoni, il risultato più bello»

Ture Most torna con un nuovo singolo ambientato tra i vicoli della sua Torre Archirafi. Il 28enne ripostese «cresciuto a vavalaggi, pane e Bob Dylan», lancia Camurrìadopo il successo dell’album di esordio Mostalgia che ha attirato l’attenzione di tanti sul giovane Salvo Mostaccio, una laurea in Scienze motorie nel cassetto e una passione sconfinata per la musica. Camurrìa – insieme ai brani Salsedine e Galatine, usciti nei mesi scorsi – farà parte di un nuovo album che è in lavorazione.

Camurrìa… quanto è bella questa parola! Come la tradurresti per chi siciliano non è? E qual è la tua camurrìa?
«Camurrìa è uno di quei concetti intraducibili, ci si prova in tutti i modi ma alla fine si sprecano troppe parole. Forse è per questo che scelgo il dialetto, uso una parola che racchiude uno stato d’animo, un po’ come i tedeschi o i giapponesi che usano parole inspiegabili se non con definizioni chilometriche. È qualcosa che ci tarla la testa. Io ho più camurrìe, si vedono nel mio brano».

Questo nuovo singolo segna un po’ una svolta nel tuo lavoro. La tua squadra si è arricchita. Ci racconti come e perché?
«Stiamo sperimentando molto, alterniamo sonorità indie-rap ad altre alternative hip hop, avventurandoci in un sottogenere che sembra presentarsi sempre più originale e figlio delle idee che partono da me e da mio fratello Roberto (R-Most), sempre mixati e masterizzati dal nostro fonico di fiducia, Ricky Marano. Da inizio anno si è aggiunto al team anche Valerio Brunetto (presente già in Mostalgia con la co-produzione di Nella folla) che ha portato sicuramente del suo al team, lo abbiamo rivisto in Galatine oltre che in Camurrìa e lo rivedremo sempre di più nei prossimi lavori». 

Da dove nasce questa collaborazione?
«Da una stima artistica reciproca, mi ha più volte confidato che sentire i miei lavori ha risvegliato in lui la voglia di creare, accendendo un entusiasmo che lo ha portato a propormi diversi giri di chitarra che si sono scritti letteralmente da soli, lui suonava ed io ci scrivevo su istantaneamente. La collaborazione a tre è semplice nonostante le distanze: io e mio fratello viviamo nella stessa casa mentre Valerio vive in Olanda, quindi ci mandiamo spesso le tracce. Ma quando ci incontriamo l’immediatezza della creatività e della produzione lampa e stampa è sbalorditiva». 

Camurrìa continua nel solco del racconto della tua terra, sia con le immagini che con il linguaggio. In cosa invece si discosta dai lavori precedenti?
«Venivo da una serie di lavori in cui mi sentivo un po’ troppo addolcito, e così come i testi anche le produzioni musicali risultavano un po’ più sul sentimentale, ma scrivere per me è un’esigenza che mi permette di fare chiarezza, di tirare cose fuori dalla mia mente, e proprio dentro la mia mente avevo qualche concetto meno smielato da esportare. Così un pomeriggio io e Valerio ci siamo seduti sul prato del Miramare a Torre Archirafi, gli ho detto di suonare qualcosa di più incazzato, appena abbiamo trovato il giro giusto passa una mamma col passeggino e il bimbo dentro che piangeva a squarciagola ed ecco che nella mia mente parte I picciriddi chiangiunu. La magia che ci offre la natura, prenderla in prestito e trasformarla in qualcosa di mio, che poi diventa nostro. Il giro di chitarra è stato poi reso più epico da R-Most, con archi e violini che creano un clima quasi apocalittico, da mare in tempesta, per poi finire dolcemente con l’assolo di chitarra suonato dallo stesso Valerio. Anche il modo di lanciare le immagini è leggermente diverso in questo brano, sembra una passeggiata in cui dai un colpo d’occhio a tutto, per poi proseguire dritto per la tua meta (che non sai qual è)».

Il video è in bianco e nero, ma il cordone ombelicale è azzurro. Perché?
«Il tono cromatico ci trasmette quell’epicità dark, un’atmosfera che porta la rassegnazione quasi totale tipica del siciliano che comunque non si priva mai del tutto di qualche sorriso un po’ più “birbante”. Il cordone azzurro, ma un po’ tutti i lavori in post produzione, come ad esempio la pioggia e altri effetti che si manifestano ogni volta che li descrivo nel brano (ce ne sono tanti), tendono a spiccare rispetto al resto delle immagini, un po’ alla Schindler’s list o Sin City ma con l’azzurro al posto del rosso. Questa discriminazione cromatica tende a rafforzare il legame tra me e le mie radici, legame naturale che mi permette di esprimermi sinesteticamente trasmettendo immagini dalla mia alle vostre teste tramite semplici versi. È una grande idea del regista Graziano Piazza».

Dopo il primo album qual è stata la reazione attorno a te? Sia del tuo territorio sia come attenzione da fuori?

«Dal 17 maggio ad oggi il disco è già a 90mila stream su Spotify, posso affermare che il mio pubblico cresce sempre di più e ne sono realmente orgoglioso, siamo una grande famiglia che si espande esponenzialmente da giugno 2018. Mostalgia ha attirato attorno a me tante persone nel territorio e i live che ho fatto quest’estate ne sono la prova, più di mille persone per volta nei miei due eventi a Torre Archirafi hanno cantato i miei ritornelli a squarciagola. Nel comprensorio jonico i ragazzi ascoltano la mia musica, mi taggano nelle storie Instagram e mi chiedono selfie quando mi incontrano. Per me è bellissimo e non smetterò mai di abituarmi a questo, sperando possa crescere sempre di più col proposito che i miei messaggi arrivino sempre a più gente. Piano piano stiamo iniziando a spingerci anche oltre, avvicinandoci a Catania città, ma abbiamo già ricevuto diverse proposte da alcuni Comuni siciliani anche del Messinese, vediamo come va. Gli ascoltatori Spotify sono in costante crescita anche in altre città d’Italia, soprattutto Roma, il che è sorprendente visto che mi esprimo molto con il dialetto, ma questo ci fa capire che certe emozioni non hanno lingua».

Sei stato pure invitato in una scuola. Come è stato il confronto con i bambini?
«È sempre bello interfacciarsi con le nuove generazioni, ne apprezzi le diversità e le affinità con la tua, restiamo sempre un po’ bambini ma non capiamo il momento in cui pensiamo che abbiamo smesso di esserlo. Ho fatto un esperimento con loro: chiudere gli occhi ascoltando i miei brani. Mi hanno descritto molte scene, alcune molto personali, altre ricalcavano la stessa visione che ho avuto io al momento del concepimento del verso, e questa è la prova del fatto che quando scrivo torno spesso un po’ bimbo, facendomi ancora colpire dalle cose a cui purtroppo ci abituiamo quotidianamente».

Tu vivi in un territorio che ha dato i natali ad artisti incredibili e che ha sempre sviluppato tante creatività. Oggi anche a te sembra che non sia più così? Che quella ionica sia, anche dentro la Sicilia, una delle aree più spente (pure a livello giovanile)?
«Penso che la Sicilia condizioni molto il modo di pensare della gente che ci vive, e allora le strade sono due: o ti omologhi e ti rassegni, o ti rimbocchi le maniche per cercare di far emergere qualcosa di buono da te stesso. Poi, che la condizione socioeconomica in cui questa regione verte oggi ci costringe quasi a scappare è un altro discorso, ma molte menti partono da qui e fanno di necessità virtù, ingegnandosi nell’arte, nella medicina, nella fisica e in tutti i campi possibili. Siamo ricchi di talenti e grandi menti ma si sa, spesso Nemo propheta in patria».

Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo album?
«Contaminazione e multilinguismo, sempre ben bilanciate, e chissà, qualche bel feat».

Salvo Catalano

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