Martedì ha messo piede fuori di casa dopo 45 giorni. Ed è tornato subito al Comune. «C’è un sacco di lavoro da fare: bandi, bilanci, sostegno all’economia di Troina per la fase 2». Fabio Venezia è uno dei due sindaci siciliani (l’altro è quello di Cerami) a essere stato contagiato dal Covid-19. E ad averlo sconfitto. «Non ho recuperato del tutto l’olfatto, fortunatamente il gusto sì. E mi stanco ancora molto facilmente. Basta salire una rampa di scale o andare in giro con la mascherina per sentirmi affannato». Sono questi i regali che gli ha lasciato il virus. Oltre a quello, ben più grave, di una scia di morti: cinque, tutti disabili ospiti dell’Oasi Cristo Re, il più grave focolaio della Sicilia. Dove alla fine i positivi sono stati 173 tra pazienti e dipendenti. «Ma su 570 tamponi fatti alla popolazione di Troina, quindi fuori dall’Oasi, tra le persone più esposte, come i parenti dei dipendenti della struttura sanitaria, solo uno è risultato contagiato. Oltre a me».
Siete riusciti a tenere il virus lontano dal paese, che è stato comunque dichiarato zona rossa.
«Sì, ora lo posso dire: abbiamo salvato il paese. Poteva essere un disastro ben peggiore. Noi abbiamo avuto il più alto numero di contagiati per abitanti in Sicilia: 175 su novemila persone, ma solo due fuori dall’Oasi. E dall’altra parte abbiamo registrato il più basso tasso di mortalità: 2,8 per cento. Cinque morti su 175 contagiati».
Come avete fatto a tenere separato il focolaio interno all’Oasi dal paese?
«Con un atto di forza abbiamo imposto ai dipendenti dell’Oasi venuti a contatto con i pazienti di non tornare nelle rispettive case, ma di trascorrere la quarantena in un hotel che abbiamo requisito. Qualcuno all’inizio mi voleva denunciare per sequestro di persona. Poi però hanno capito e sono rimasti tutti lì. Molti non sono ancora tornati a casa».
Ha ricostruito quando lei si è contagiato?
«Il 19 marzo arrivano i risultati positivi dei quattro tamponi sui primi disabili che avevano manifestato febbre. Nei due giorni successivi sono stato all’Oasi a gestire direttamente l’emergenza, facendo riunioni con i vertici e parlando con i dipendenti per convincerli a restare nell’albergo. Per quanto avessi la mascherina, è lì che ho preso il virus. Basta aver toccato una maniglia, un interruttore…»
Quando ha avvertito i primi sintomi?
«Sabato 21 marzo sono rientrato a tarda notte. Domenica ho saputo che persone con cui ero stato nei giorni prima avevano la febbre. Allora ho deciso di isolarmi, distanziato anche dalla mia famiglia. E di continuare a lavorare da casa. Giovedì ho cominciato a manifestare i primi sintomi: febbre mai sopra i 38, dolori, difficoltà respiratorie, saturazione del sangue bassa ma non al punto di ricoverarmi, anche se molti me lo hanno consigliato».
Ha chiesto di fare il tampone?
«Ho comunicato i miei sintomi a una dottoressa dell’Oasi che mi ha subito consigliato di fare la Tac perché per il tampone i tempi erano troppo lunghi. Ed è emerso un principio di polmonite. La conferma col tampone è arrivata settimane dopo. Sono stato curato con un mix di farmaci: Plaquenil, Zitromax, eparina e altri».
Cosa ha provato in quei giorni?
«Sconforto. I primi giorni sono stati tremendi. Al di là del malessere fisico, è dura sotto il profilo psicologico. Vedi finire in ospedale molte persone, anche quelli con cui hai lavorato fino a poco prima. Senti il bollettino quotidiano con i ricoverati e i morti che aumentano. Hai la sensazione che, anche se i tuoi sintomi non sono molto gravi, la situazione possa precipitare da un momento all’altro. All’inizio ho cercato di continuare a tenermi informato, a gestire l’emergenza. Ma ci sono stati molti giorni in cui sono rimasto a letto immobile. Devo dire grazie ai miei collaboratori, alla mia giunta che ha lavorato sodo».
Nella gestione dell’emergenza come vi siete mossi?
«All’Oasi dopo il dilagare del contagio, molti dipendenti erano impauriti dal tornare a lavoro, e molti altri erano in quarantena. C’erano quasi 200 disabili da accudire h24 e ho temuto il peggio, che rimanessero soli. Curare un disabile affetto da Covid è molto complicato: non hanno consapevolezza della malattia, non riescono a spiegarti i sintomi, hanno una loro fragilità pregressa, è più difficile somministrare la cura. A quel punto ho pensato di scrivere al ministero della Difesa per chiedere l’invio del personale sanitario militare. Il giorno che sono arrivati loro, a me è salita la febbre».
Adesso la situazione all’interno dell’Oasi com’è?
«Ora è sotto controllo. L’esercito è andato via il 30 aprile. Una cinquantina di disabili sono tornati a casa. Restano nella struttura in 150. Molti non hanno parenti in grado di accudirli».
Nel momento di massima emergenza, la Regione ha inviato un commissario. Sono stati fatti errori?
«Io non sono un esperto. So, perché ci sono passato, che decidere in questa situazione comporta una responsabilità enorme. Se sbagli, rischi di far morire persone. La Regione ha inviato un commissario a supporto, che è stato molto importante perché i medici dell’Oasi sono esperti di disabilità. La presenza di un infettivologo è stata determinante».
Come sta ripartendo il suo paese?
«Il disagio sociale è sotto controllo grazie alle misure messe in campo. Duecento nuclei familiari hanno usufruito dei buoni spesa. Qui molti sono impiegati pubblici, o dipendenti dell’oasi. In sofferenza sono andate soprattutto le piccole attività commerciali, la ristorazione, l’artigianato e l’indotto edile. Ma confidiamo molto negli appalti pubblici: otto cantieri già in corso riprenderanno, entro giugno contiamo di farne partire altri dieci».
Tornando a lavorare, ha trovato una brutta sorpresa: Gino Bontempo, il boss di Tortorici, è tornato a casa, ai domiciliari, a causa del rischio Covid. Un personaggio di spicco della mafia dei Nebrodi, che a gennaio era tornato in carcere con l’operazione Nebros. Che ne pensa?
«Gino Bontempo abita a Tortorici ma è legato ai contesti criminali del nostro territorio. Penso che sia una delle pagine più tristi di questa emergenza: portare ai domiciliari i mafiosi e costringere le persone a casa. È un’offesa alla memoria di chi ha sacrificato la propria vita nella lotta alla mafia. Gino Bontempo, come hanno dimostrato le recenti indagini della magistratura messinese, rappresenta il punto di congiunzione tra una mafia arcaica e i colletti bianchi che, attraverso pratiche corruttive, garantiscono l’accesso ai fondi europei».
Una volta guarito, qual è adesso per lei la prossima sfida?
«Apriremo un museo dedicato al fotografo Robert Capa, proprio oggi (ieri, ndr) ho svolto il sopralluogo. Esporremo 62 foto inedite. Una delle tappe più significative del lavoro di Capa in Sicilia è stata proprio a Troina. Ci siamo messi in contatto con l’istituto nazionale di fotografia di New York che conserva tutti i negativi di Capa. Abbiamo mandato lì due esperti e tramite una fondazione abbiamo acquistato le foto. Sarà un simbolo della ripartenza».
Uno stabilimento di trasformazione clandestina dell'uva è stato scoperto e sequestrato nel Trapanese dai carabinieri…
Furto nel negozio di abbigliamento New Form in via Maqueda a Palermo. I ladri hanno spaccato…
Un 57enne calabrese ma residente a Catania da diversi anni, che era ai domiciliari, è stato arrestato…
I poliziotti della questura di Catania hanno effettuato alcune perquisizioni domiciliari, nel territorio di San…
La Corte di Appello di Catania ha assolto perché il fatto non sussiste un appuntato dei carabinieri…
A Palermo è stato dato alle fiamme in piazza Bologni il giaciglio di un clochard mentre lui non c'era.…