Quasi 27 milioni di euro, di cui un terzo alla Regione e gli altri due divisi tra i dieci Comuni nei cui territori ricadono i pozzi e le centrali di trattamento. È questa la cifra complessiva che nel 2017 è stata versata dalle società che operano nel settore degli idrocarburi, sia liquidi che gassosi, per operare in Sicilia. Royalty che dovrebbero servire per bilanciare l’impatto ambientale causato dagli impianti di produzione e lavorazione. Il dato è di poco superiore a quello del 2016, quando il totale sfiorò i 25 milioni e mezzo, ma conferma comunque il trend di netto ribasso rispetto agli anni precedenti: nel triennio precedente, infatti, i versamenti delle compagnie non furono mai inferiori ai 45 milioni di euro, con una punta di oltre 78 milioni nel 2014.
Gli importi equivalgono al 20 per cento dei fatturati legati ai siti siciliani. Un’aliquota doppia rispetto a quanto previsto nel resto d’Italia. A innalzarla del cento per cento è stato nel 2013 il governo regionale guidato da Rosario Crocetta. Una legge a cui seguì la protesta di Assomineraria e una segnalazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e che dodici mesi dopo sembrava sul punto di essere rivista al ribasso con la proposta di portarla al 13 per cento, poi mai concretizzatasi.
In precedenza, nello specifico dal 2010 al 2012, chi aveva concessioni per operare nell’Isola pagava il 10 per cento come royalty. Aliquota che fino al 2009 era stata del 7 per cento, ma senza la franchigia in vigore nei tre anni successivi, che stabiliva che fino a 20mila tonnellate all’anno di petrolio greggio e 20 milioni standard metri cubi di gas non bisogna pagare nulla, a eccezione del canone superficiario e del contributo una tantum legato alla concessione. Quest’ultimo è tutt’ora in vigore e si rinnova in caso di autorizzazioni per nuove ricerche, con soglie che variano dal 3 al 5 per cento rispetto all’entità dell’investimento.
A essere interessati alle royalty, che spesso diventano pilastri dei bilanci, come detto sono anche alcuni Comuni. Oltre ai più noti come Gela e Ragusa, ci sono anche Gagliano Castelferrato, Nissoria, Troina e Regalbuto, in provincia di Enna; Butera e Mazzarino, nel Nisseno, e poi Bronte, in provincia di Catania, e Mazara del Vallo. A loro vanno i due terzi dei versamenti, ripartiti in maniera proporzionale all’attività ospitata nel proprio territorio, per cui si va da casi in cui in ballo ci sono milioni di euro ad altri che vedono come posta in entrata nei bilanci poche migliaia di euro all’anno.
«I motivi della riduzione delle royalty vanno ricercate in due direzioni – spiega il dirigente generale del dipartimento regionale all’Energia, Tuccio D’Urso -. Da una parte assistiamo alla diminuzioni dei prelievi, anche in conseguenza del minor numero di ricerche in Sicilia. Dall’altro, invece, un dato oggettivo riguarda il prezzo del petrolio. Negli anni in cui si è incassato di più toccò picchi che oggi non ci sono più».
Quello delle royalty è stato un tema che, nel 2016, ha fatto parte del dibattito nazionale che ha preceduto il referendum sulle trivellazioni. Agli elettori, in quell’occasione, venne chiesto di esprimersi sui permessi per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa: se farli durare fino all’esaurimento del giacimento o se porre fine alla scadenza delle concessioni in vigore. Nonostante la campagna referandaria portata avanti da ambientalisti e comitati civici alla fine il raggiungimento del quorum risultò più di una chimera. In Italia a recarsi alle urne fu poco più del 31 per cento degli aventi diritto. Nell’Isola, poi, la risposta fu ancora più bassa: andò a votare soltanto il 28 per cento dei siciliani.
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