“Trionfa l’economia, muore la società. È un passaggio storico di incalcolabile portata. Una ‘inversione dei fini’ che si consuma sotto i nostri occhi senza che quasi nessuno abbia capacità di vedere”. E’ racchiusa in queste poche righe l’essenza dell’ultimo libro dello storico Piero Bevilacqua “Miseria dello Sviluppo”, che l’autore ha presentato il 9 febbraio nell’aula magna della Facoltà di Scienze Politiche a Catania. All’incontro, organizzato dalle Facoltà di Lettere e Filosofia e Scienze Politiche, dall’istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali (IMES) Sicilia e dalla Winter School Sviluppo e Ambiente, hanno partecipato anche i presidi Enrico Iachello di Lettere e Giuseppe Vecchio di Scienze Politiche , Giuseppe Giarrizzo e Giuseppe Barone, ordinari di Storia Contemporanea e il geologo Renato Cristofolini.
A metà tra ricostruzione storica e inchiesta, ripercorrendo le tappe fondamentali dell’industrializzazione contemporanea, l’ultimo lavoro di Bevilacqua è una vera e proprio denuncia dei mali del capitalismo moderno.
“Lo sviluppo è finito”: da questo semplice assunto Bevilacqua ripercorre gli ultimi decenni della storia economica mondiale a partire dagli anni ’70, quando la brusca frenata alla crescita che aveva caratterizzato i decenni scorsi investe in pieno il mondo occidentale. Non solo lo sviluppo si arresta ma si ribalta tramutandosi in violento declino: l’Occidente tutto è in piena crisi, non cresce più o piuttosto cresce male. Nascono nuove povertà e nuove emarginazioni, aumentano le disuguaglianze sociali. La crisi occidentale si ripercuote con effetti devastanti nei Paesi del Terzo Mondo facendo sì che la distanza tra paesi ricchi e paesi poveri cresca in maniera esponenziale.
Ma lo storico non si ferma qui e analizza gli effetti, dannosissimi, che lo sviluppo economico ha provocato sulla società, primo fra tutti l’imposizione di ritmi di vita frenetici e insostenibili. All’aumentare dei redditi diminuisce la felicità e all’aumentare degli impegni le relazioni sociali si vanno sfaldando sempre più. Il lavoro è sempre meno flessibile e non garantisce neppure una minima pianificazione di vita futura.”Corriamo, consumiamo, ma non siamo felici ” e quello che si viene a creare è una condizione di infelicità diffusa e collettiva. È possibile una via d’uscita? Secondo Bevilacqua sì: dalla ridefinizione dei termini dello sviluppo: “crescere meglio crescendo di meno”, non bloccando lo sviluppo ma renderlo compatibile con gli equilibri della società, alla definizione di un protocollo internazionale per il lavoro contro precariato e sfruttamento, dalla riduzione delle ore lavorative al tentativo di rilanciare un Welfare orizzontale.
Alla fine della presentazione del volume, abbiamo intervistato Bevilacqua per capire meglio come possiamo lottare contro l’infelicità di questi giorni precari.
Caro professore, davanti alla crisi mondiale si sente attualmente parlare di un rilancio delle politiche “keynesiane”, più o meno rivolte a sostenere l’occupazione, i redditi e – in ultima istanza – i consumi. Lei ha messo viceversa l’accento sulla qualità dei consumi che hanno finora trainato la crescita economica. In che modo pensa che andrebbero ripensate le politiche anti-crisi?
Pensare all’economia come ad un mezzo per creare benessere collettivo e non soltanto come uno strumento per produrre merci materiali da sostenere con un consumismo sfrenato e insensato.
Io credo che la crisi possa rivelarsi una grande occasione per cambiare le basi energetiche nel mondo industriale: andare verso il solare, verso le energie alternative.
La crisi economica può servirci a cambiare rotta? A mettere al primo posto altre cose rispetto ai beni materiali, ai consumi a tutti i costi?
Assolutamente si perché ci mostra che si può vivere bene senza avere dieci paia di scarpe nell’armadio e tre o quattro telefonini di ultima generazione. Noi possediamo abbastanza risorse da poter vivere felicemente. La nostra felicità non è un bene materiale, è solo una questione di equilibrio interiore, e di saggezza.
“Produci, lavora, crepa” cantavano i CCCP qualche anno fa. Questo modello è ancora attuale e, come scrive lei, ci rende infelici. Come ne usciamo?
Siamo costretti a lavorare con turni sempre più insostenibili, a condurre una vita stressante che si trasforma sempre più in una corsa contro il tempo. In questo modo abbiamo sempre meno per noi stessi, per i nostri amici, per i nostri cari e questo ci rende in felici. Dovremmo rallentare questi ritmi, prenderci dei momenti da vivere con lentezza, senza guardare l’orologio e stare con le persone che amiamo. E’ un modo per essere più felici. L’economia deve essere un mezzo il cui fine è il benessere della società. Si deve ritornare a pensare al mezzo economico come ad uno strumento al nostro servizio, non esserne strumentalizzati.
Crede che ne guadagnerebbero anche i rapporti interpersonali?
Certamente. Bisognerebbe dedicare più tempo a se stessi e più tempo alle relazioni umane perché la felicità viene proprio da questo.
Le classi governative sembrano non riuscire a trovare strumenti concreti per fronteggiare la crisi, né tantomeno soluzioni. Come si spiega questa sorta di paralisi da parte del mondo politico?
Questa classe politica è assolutamente inetta ad operare qualsiasi trasformazione. Lo è in Italia e, ahimè, lo è anche in buona parte dell’Europa. E’ una classe politica culturalmente misera, conformista, fondata su dogmi neoliberalisti da cui non riesce a liberarsi, con una cultura ambientale inesistente. Questi uomini a mio avviso vanno cacciati via. Quando ci sarà un reale rinnovamento del mondo politico forse comincerà una nuova epoca per l’umanità.
Ha fiducia nel programma economico del nuovo presidente degli Stati Uniti Barak Obama? Cosa ne pensa, ad esempio, delle prime misure che ha adottato in difesa dell’ambiente?
Sono abbastanza fiducioso. Devo dire che è l’unico elemento di novità, a parte forse Zapatero in Spagna, nel panorama politico internazionale. Ad esempio, l’impegno a garantire una maggiore uguaglianza sociale e il privilegiare le risorse energetiche alternative sono punti importanti che ogni governo che si ritenga innovatore dovrebbe affrontare. Aspettiamo e vedremo, non facendoci eccessive illusioni però perché il presidente Obama deve fare i conti con un establishment fatto di poteri forti, conservatore, con forti interessi economici sparsi per il mondo e radicatissimi… Ma sarebbe sciocco negare che la sua elezione rappresenta una pagina nuova nella storia politica mondiale.
Guardando al suo lungo percorso di studioso, può spiegarci che rapporto c’è tra le sue ricerche sulla storia dell’agricoltura e sulla storia del Mezzogiorno e gli interessi relativi alla storia dell’ambiente che ha maturato negli ultimi anni?
C’è un nesso molto forte, evidente. Da storico del mondo agricolo ho scoperto i limiti dell’agricoltura industriale. È indubbio che questo sistema di abbia portato non pochi benefici al mondo occidentale – grazie all’agricoltura industriale, ad esempio, l’Europa è uscita dalla dipendenza alimentare già nei primi anni ’60 – ma sappiamo tutti che i metodi di produzione industriale sono altamente inquinanti, e ne risultano prodotti contaminati dai pesticidi. Inoltre, l’alimentazione industriale è sospettata di essere una tra le responsabili cause della diffusione del cancro. E’ stata questa voglia di approfondire a far nascere in me l’interesse per la salvaguardia dell’ambiente e quindi verso la sua storia.
Lo sviluppo economico deve essere ancora uno degli obiettivi principali delle politiche meridionalistiche?
Secondo me no. Si deve puntare di più sul creare servizi efficienti, valorizzare il territorio, diffondere l’agricoltura e le colture locali. Con questo non dico che dobbiamo smettere di produrre. Bisogna fare economia essendo a conoscenza di che cosa succede alla natura, quali sconvolgimenti vengono prodotti.
Quale potrebbe essere una soluzione?
Mantenere l’attività economica all’interno degli equilibri naturali. Come? Rispettando l’ambiente, utilizzando fonti di energia rinnovabili, mettendo una cura particolare nell’utilizzo delle risorse naturali come acqua e l’aria pulita, sfruttare la fertilità della terra… Dovremmo pensare a come ridistribuire le tante ricchezze che possediamo.
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