Trentasette chilometri

È domenica pomeriggio, piove e fa freddo nelle campagne di Mineo. Arriviamo al centro, insieme a un avvocato del Centro Astalli, centro di assistenza agli immigrati di Catania, percorrendo la Catania-Gela. La situazione è molto tranquilla e per strada non c’è quasi nessuno. Vicino all’entrata incontriamo tre ragazzi. Non parlano italiano, ma con un po’ d’inglese, uno di loro ci dice che sono afghani e che sono arrivati da Bari tre giorni fa. Più avanti c’è un altro ragazzo. Lui è iracheno ma non parla né italiano né inglese. Stanno tutti rientrando da una passeggiata per i campi.

All’ingresso, chiusi in guardiola, ci sono agenti di polizia e carabinieri. Alla richiesta dell’avvocato di entrare nel centro rispondono che devono informarsi: fanno una telefonata, intanto si fanno consegnare il tesserino dell’ordine degli avvocati e dopo aver annotato i suoi dati in un registro, riceviamo la risposta: non è possibile l’accesso senza avere l’autorizzazione dalla prefettura o dalla questura.

Chiediamo al poliziotto di servizio quanti sono al momento gli immigrati ospitati nel centro e se ci sono stati altri arrivi oltre a quello di tre giorni fa: «Saranno 300-400. Da quando sono qui io, cioè da oggi, non ci sono stati arrivi», risponde.

Si sta facendo buio e le strade non sono illuminate. Lungo quella che costeggia l’entrata dell’agglomerato, incrociamo altri due giovani. Come i primi quattro, si mostrano subito disponibili al nostro richiamo, per nulla diffidenti o impauriti. Javed e Ghobadi sono arrivati dall’Afghanistan tre mesi fa e da tre giorni sono stati trasferiti a Mineo da Bari, insieme ad altre 95 persone. Non parlano la nostra lingua, ma Javed si fa capire grazie all’inglese. Ci racconta che nel suo alloggio sono in sei, due in ogni stanza e che gli altri ospiti del campo sono per la maggior parte afgani, iracheni e pachistani, arrivati anche da Crotone.

Vogliamo sapere se e chi li ha informati che sarebbero stati portati a Catania. La parola Catania li spiazza, ma appena diciamo Sicilia capiscono. Sono stati informati il giorno prima della partenza da qualcuno – non sanno dirci con quale ruolo – che gli ha detto che sarebbero andati in Sicilia.

Chiediamo a Javed come si trova, ci dice che va bene e, indicando estasiato tutt’intorno con un gesto della mano, che il posto e la campagna sono bellissimi.

Domandiamo quando dovranno presentarsi davanti alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, ma non lo sanno ancora, pensano però che lo faranno qui e non più a Bari. Dentro il centro ci sono agenti delle forze dell’ordine e operatori della Croce Rossa, ma finora non hanno incontrato e parlato con avvocati e non sanno bene in cosa consiste la procedura per l’ottenimento dell’asilo.

Ci facciamo raccontare come si svolge la vita all’interno: Javed dice che sono solo tre giorni e ancora non conosce tutte le regole. Ci sono degli orari per i pasti, alle 8 si fa colazione per esempio. Alla nostra domanda su com’è il cibo, Javed e Ghobadi si guardano, ridono e commentano nella loro lingua. Il cibo è buono, assicurano. Le risate, allora? Il problema è la fila: è lunga, loro sono tanti e la postazione in cui si distribuiscono i pasti è piccola.

Vista la pioggia, chiediamo dove sono andati. Sono arrivati fino alle prime case: è lontano, sottolineano, a piedi è tanta strada, ma non ci sono trasporti, quindi si deve camminare.

Adesso non c’è quasi più luce, li lasciamo rientrare, ma prima di salutarci si scusano con noi perché non parlano italiano. «We want to speak Italian. It’s important, we live here». Vogliono impararlo, visto che dovranno vivere qui.

Agata Pasqualino

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