“Tre bandiere per Salvatore Giuliano”

Capitan America, supereroe nato nel 1940 per motivi di propaganda, ha un nemico mortale: il Teschio nero. Un essere orribile con un corpo umano e con un teschio al posto della testa. Rappresenta il fascismo italiano, il nazismo tedesco e l’imperialismo fascista giapponese.
A tirarlo in ballo è un grande giornalista italiano: Felice Chilanti, un personaggio che a piè pari era passato dalla Decima Mas al partito comunista di Togliatti. Autore di un libro memorabile: “Da Montelepre a Viterbo”, uscito nel 1952, a pochi giorni dalla conclusione del processo (3 maggio 1952) che aveva visto negare l’esistenza di mandanti nella strage di Portella della Ginestra e l’assenza per “morte” di alcuni dei suoi principali protagonisti. Uno dei primi instant book del nostro giornalismo.
E’ una storia dello scontro tra le forze del bene e quelle del male, che si ripete fino alla sentenza di questi giorni contro gli autori della strage di Brescia, quando il 28 maggio 1974 una bomba esplode contro una folla che manifesta contro il neofascismo in piazza della Loggia, uccidendo otto persone e ferendone cento. Gli imputati tutti assolti per insufficienza di prove, fatta eccezione della formula dubitativa per Pino Rauti, ex segretario del Movimento sociale italiano e fondatore di Ordine Nuovo.
Lo storia è lunga, ma al centro ha sempre lo stesso protagonista: la Crozza Nera, la testa di morto delle squadre armate neofasciste. I “mai morti”.
Nella genesi di Crozza Nera, nella Sicilia del secondo dopoguerra, c’è l’aggravante dei suoi intrecci con la mafia e con il banditismo. Scrive Chilanti in “Tre bandiere per Salvatore Giuliano” (Il Saggiatore, 1968): nel mese di aprile 1946 le mafie siciliane eleggono come loro capo Lucky Luciano, appena arrivato prima a Roma e poi a Palermo. A Roma si incontra con Michael Balsamo, funzionario dell’ambasciata americana e garante delle attività di Luciano in Italia. Nello stesso mese di aprile e a maggio Lucky a Palermo sente i capi del separatismo e i boss. Secondo Chilanti si incontra anche con Giuliano nel panfilo del principe Alliata, al largo del golfo di Castellammare. Da qui i primi contatti diretti tra il bandito e gli esponenti delle trame nere internazionali. Stando a un documento del Federal Bureau of Narcotics, c’è un mediatore dell’incontro. E’ un membro della banda di Turiddu poi espatriato anche lui in America, nell’agosto 1947, assieme a Pasquale ‘Pino’ Sciortino. Il documento precisa che Balsamo, vestito da generale americano, probabilmente un agente dell’Ssu, il servizio segreto di Angleton, come Micke Stern, se ne va in giro per la Sicilia occidentale con un’uniforme da generale americano assieme a Lucky Luciano. E’ proprio in questi giri che passano da Settecannoli, da Bagheria, dal capomafia Santo Sorge, che i due incontrano Francesco Barone, picciotto del capobanda e, a questo punto, probabile mediatore tra quei signori e il “re di Montelepre”.
La cornice della strage di Portella della Ginestra si definisce, dunque, per la presenza della mafia, dei Servizi internazionali, e della delinquenza politica e utilizza il terrorismo eversivo come metodo di lotta politica. Inizialmente in senso separatista, poi al servizio della monarchia, e, infine, dell’anticomunismo.
Dopo il referendum del 2 giugno 1946, quando Giuliano fa campagna elettorale per il partito monarchico di Covelli-Alliata, il capobanda ha un momento di sbandamento. Nessuno lo cerca più. Ma la mafia è vigile e guarda lontano. Lo considera sempre una risorsa. Tutti si allineano su ordine di Crozza Black. “Giuliano accettò il patto [con Crozza Black che gli aveva promesso espatrio e soldi]. E cominciò in quel momento, con quell’accordo, il periodo più sanguinoso della storia della banda. Con la terza bandiera [l’anticomunismo], veniva offerto a Giuliano un espatrio sicuro, larghi mezzi finanziari: giunto oltreoceano, egli avrebbe potuto scegliere il suo destino: la vita sicura, pacifica, di un qualsiasi cittadino ricco, o una posizione di comando nella malavita americana e canadese. La nuova bandiera altro non era che il fascismo americano. Era stato costituito in Sicilia un movimento chiamato Fronte Antibolscevico: la grande mafia siculo-americana vi occupava le posizioni chiave”.
Tutto torna. Anche con le confessioni rese da Gregorio Di Maria, a due infermieri di Castelvetrano alla vigilia della sua morte, nell’ospedale civico del suo paese, il 6 maggio 2010. L’anziano “avvocaticchio” nella cui casa era avvenuta la finta morte di Giuliano, preso da problemi di coscienza alla venerabile età di 98 anni, in piena lucidità mentale avrebbe confessato che i carabinieri quella notte fecero carte false, e che il morto era un sosia del bandito. Una pedina dell’Internazionale nera composta dalla mafia siculo-americana, dai Servizi di Angleton e Corso e dal Nuovo comando generale voluto da Charles Poletti per conto di Truman, operativo dal maggio 1946, per volontà del capo dell’X2 e di Lucky Luciano.
Quand’ero bambino, mia madre e mia nonna, che abitava con lei, entrambe vedove, avevano trovato una buona maniera per tenermi calmo. Mi raccontavano che, ad una certa ora, non si doveva più uscire di casa. Con le tenebre il lupo mannaro si metteva a girare per le strade per aggredire le persone, i bambini specialmente, uccidendoli sul colpo. A rincarare la dose di paura, mia zia Marianna aggiungeva che lei una volta ne aveva visto uno, quasi sotto il portone di casa sua, che ululava come un cane, in preda alla voglia di agguantare qualcuno. Quindi, calata la sera, me ne stavo quieto e non varcavo la porta di casa neanche a cannonate.
Crescendo, però, mi sono accorto che il mondo è pieno di lupi mannari, ciascuno con le sue pulsioni bestiali e i suoi deliri e ho dovuto cominciare a imparare ad affrontarli, senza l’aiuto di nessuno. I lupi mannari, in certi casi, sono come i fantasmi, possono tornare a rivivere, come gli zombi, e più che farti male, questa volta, ti rendono le notti insonni. Lottano con la loro coscienza sporca, sovrastati, come sono, dagli angeli della notte, che ti proteggono, e si ergono a schiera in tua difesa, se stai dalla parte della ragione, dalla loro parte. Dalla parte delle vittime.
Non hanno tempo queste anime, e gli uomini, erroneamente pensano che con il passare del tempo possono nascondere il loro grido silenzioso, la loro voglia di farsi sentire, la loro corale ribellione contro il male. Alla fine rompono la muraglia e sconfiggono il nemico.
Così, crescendo, ho capito la differenza che c’è tra la luce e il buio, tra giustizia e ingiustizia, tra gli angeli e i diavoli, mistificatori e imbroglioni da una parte e quanti cercano la verità dall’altra. Io che sono scettico ho imparato, tuttavia, che esiste una differenza tra la profondità dove nascono tutte le sorgenti dell’acqua e del fuoco, dei principi vitali, e la superficialità del vivere quotidiano. E ho capito che l’unico vero sforzo che gli uomini dovrebbero fare su questa terra è solo quello di chinarsi un po’ di più al di sotto dei loro piedi, scavando con le mani tra i cocci che affiorano come segnali, dopo una giornata di pioggia.
Uno sforzo che quasi mai viene fatto, abituati come siamo, a correre spinti dalla forza d’inerzia, o dalla forza attiva e interessata di quanti vogliono che non ci voltiamo mai indietro, e non ci chiniamo mai a vedere cosa calpestiamo. Ma se rompiamo questa scorza, e cioè la paura di affrontare la verità, allora possiamo correre lontano e acciuffare tutte le bestie che ci hanno tenuto segregati dentro la cappa delle nostre paure.
Non ci facciamo caso, e per questo siamo quelli che siamo. Per questo il nostro mondo non ha senso e il passato coincide quasi sempre con la dimensione del terrore, del sepolto, della fuga dalla memoria e da ogni ragione.
Nella giornata dei morti nel mio paese, il cimitero si anima, vivi e morti si riuniscono come in una famiglia ancora attiva e la quotidianità si interrompe in modo brusco, come se qualcosa di sospeso, di indecifrabile, venisse a stabilirsi nella banale routine del dolore e della follia, per dare un senso alle cose, una dimensione umana. E in questa riunione, la ragione vince sull’oblio.
Il 17 novembre apprendiamo la notizia che per i giudici non ci sono ancora colpevoli della strage di Brescia. Come per la strage della Val di Sambro, di Ustica e decine di altre stragi dimenticate o fatte passare come banali incidenti, come quello di Montagnalonga che si portò con sè 115 morti. Tutti morti senza verità e senza giustizia.
Ad aggravare il conto, nessuno ha mai calcolato le decine di altri morti in conseguenza di simili eventi che hanno sempre avuto strascichi di dozzine di altre morti misteriose.
Portella della Ginestra insegna per tutte le stragi impunite. Nel 1952 fu trovato suicida l’ispettore che aveva trattato con Giuliano e i boss siciliani. Lo seguì l’onorevole Giacomo Cusumano Geloso, il deputato monarchico che Gaspare Pisciotta aveva accusato di essere stato mandante di quella strage, assieme ad altri. Nel 1954 fu la volta di Raimondo Lanza di Trabia, agente dello spionaggio internazionale, che si buttò dall’ultimo piano dell’Hotel Excelsior di Roma. Nello stesso anno si disse che Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano era stato avvelenato con la stricnina nella sua cella dell’Ucciardone di Palermo. Suicidi o sospetti tali furono poi i medici che avevano fatto le perizie necroscopiche sul corpo di Salvatore Ferreri, confidente dell’ispettore di Ps Ettore Messana. Nel 1967 muore suicida, sparandosi con un cannoncino in casa sua, Tommaso Besozzi, il famoso giornalista che aveva scoperto il falso della morte di Giuliano.
Per non contare poi tutti gli altri casi misteriosi, scomparsi quando la commissione nazionale antimafia indaga sui rapporti tra mafia e banditismo: Mauro De Mauro, volatilizzatosi nel settembre 1970 a Palermo. Pietro Scaglione, ucciso nel 1971. E poi tre morti misteriose nel contesto di una catastrofe: il giudice Ignazio Alcamo che indagava su Ciancimino, Lima e Totò Riina; Letterio Maggiore, il medico chirurgo plastico della famiglia di Salvatore Giuliano; Franco Indovina, l’aiuto regista di Rosi nel film su Salvatore Giuliano, tutti precipitati con altre 112 persone a Montagnalonga il 5 maggio 1972. E ancora il principe Alliata, il cui indirizzo era stato trovato in un’agenda del bandito monteleprino, dopo un inseguimento delle forze dell’ordine, morto suicida nel 1982. Per non contare i 411 morti per mano del monteleprino durante i suoi sette anni di guerra contro la democrazia.
Dopo sessant’anni, vittime e carnefici sono lì in carne e ossa. Parlano. Basta metterli in fila, come pezzi di un puzzle.
Le vittime non hanno più l’appesantimento della loro corporeità. Sono leggere come l’aria e forti come la ragione. Non cercano sentimentalismi. Vogliono giustizia e hanno una pazienza antica che guarda avanti. Ma non sono disposti ad aspettare in eterno. Sanno che c’è un limite a tutto.
Se saltano i nervi ai morti, possono succedere cose inenarrabili. Sono vittime innocenti, anime che si lamentano al cospetto degli spavaldi che la sanno fare in barba a tutti, che pensano di avere vinto la partita, di essere scaltri per le ‘offerte’ del loro sacrificio pagano sull’altare del mito, della ragion di Stato. Ma sono soltanto il nulla, la negazione dell’esistenza, il rifiuto di ogni Dio.

Questo articolo tratto dall’archivio ‘Casarrubea’.

 

 

Giuseppe Casarrubea

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