Trapani: compagno violento, la vita diventa un incubo Divieti avvicinamento non rispettati, lei perde lavoro

Gli insulti, le offese e le botte. La fine di una storia d’amore e lui che si trasforma in uno stalker. Un calvario durato quattro anni quello di Gaetana Melia, 40 anni, originaria di Alcamo e mamma di tre figli. La sua vita si è trasformata in un inferno: il baratro della depressione e la conseguente perdita del lavoro. Una storia di paura ma anche di abbandono da parte delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla. 

Teatro della vicenda è l’ex centro per richiedenti asilo di Salinagrande (oggi chiuso), dove Gaetana lavorava come operatrice all’ospitalità. La sua storia parte dall’incontro con Alì, un giovane di origine tunisina immigrato in Italia, che la donna conosce in un centro a Gorizia nel 2010, prima di far ritorno in Sicilia: lui ancora da irregolare, lei per lavorare nel Cara della piccola frazione di Salinagrande, alle porte di Trapani. Quello che credeva il suo grande amore, però, si trasforma in breve tempo nel suo incubo peggiore. Alì infatti, una volta giunto in Sicilia, cambia. «Quell’uomo che avevo conosciuto non esisteva più – dice Gaetana -. Prima era dolce, gentile, colto, parlavamo tanto. All’improvviso però è cambiato. Comincia ad essere possessivo, geloso e con il tempo riesce ad allontanarmi da tutti: familiari, amici, colleghi, io dovevo stare solo con lui. Ha cominciato a frequentare il centro solo per controllarmi». 

Le liti sono sempre più frequenti e la violenza verbale si trasforma in violenza fisica. È a quel punto che la donna decide di troncare quella relazione malata. «È stato l’inizio della fine», racconta non riuscendo a trattenere l’emozione. Alì, pur non avendo alcun diritto di restare all’interno del Cara, non essendo un richiedente asilo e non essendo in regola con i documenti, riesce a entrare e uscire indisturbato dalla struttura. Pedinamenti, minacce, insulti nei confronti di quella donna sono ormai all’ordine del giorno.

Parte la prima denuncia e per il nordafricano scatta un divieto di avvicinamento. «Nessuno – sottolinea Gaetana – ha mai fatto rispettare quel provvedimento firmato da un giudice. Continuavo a segnalare agli organismi di polizia, ai miei superiori, ma niente. Nessuno mi ascoltava. Sono stata abbandonata. Un giorno lui mi ha aspettata fuori dalla struttura e ha minacciato di darmi fuoco». Arriva la seconda denuncia e Alì viene condannato ad un anno e due mesi per stalking. «Speravo che fosse la fine di un incubo ma mi sbagliavo. Lui è uscito poco dopo dal carcere». E l’inferno per Gaetana ricomincia. «Ho cominciato a stare male. Avevo paura persino ad uscire per andare a comprare le sigarette. Ho cominciato a soffrire di attacchi di panico e ad assentarmi sempre più frequentemente dal posto di lavoro». 

Lavoro che alla fine Gaetana perde. «Un giorno – racconta – senza alcun preavviso mi vedo recapitare a casa la lettera di licenziamento. Mi sono ritrovata all’improvviso disoccupata, sola e con tre figli a carico». Gaetana non si arrende e presenta ricorso contro la cooperativa Badia Grande che all’epoca gestiva il centro, guidata dal prete finito al centro degli scandali sessuali in cambio dei permessi di soggiorno e condannato a nove anni in Appello, don Sergio Librizzi. Ma il processo intentato dalla donna si conclude con l’assoluzione della cooperativa. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice, pur dando ragione a Gaetana, sottolinea che non era compito della cooperativa allontanare quell’uomo ma della Prefettura, quindi degli organismi di polizia presenti all’interno dei centri. Oggi i vertici della coop Badia Grande sono cambiati. La nuova gestione – che non ha continuità con la precedente – si limita a precisare che, per quanto riguarda il lavoro, «c’è stata una sentenza, aveva superato i giorni di malattia previsti, d’altra parte – continuano – non sapevamo della sofferenza psicologica della donna dovuta alle molestie (Gaetana sostiene invece di aver segnalato la situazione ai suoi superiori ndr)». Mentre sulla libertà dell’uomo di entrare e uscire dal centro di Salinagrande, la coop precisa: «È una situazione difficile da controllare».

«La sentenza è stata una vittoria ed una sconfitta – dice Gaetana -. Avrei dovuto denunciare la prefettura per ottenere giustizia. Ma ero stanca di lottare. L’unica cosa che mi interessava è che lui sparisse dalla mia vita». Cosa che succede solo grazie al rimpatrio in Tunisia. A Gaetana rimane il dubbio sul perché quell’uomo avesse così tanta libertà di movimento, pur non avendone alcun diritto. «Ti racconto un episodio – prosegue – un giorno lui è stato sorpreso all’interno del centro. Non essendo in regola è stato portato al Cie, andava rimpatriato ed invece dopo un mese era di nuovo libero. Nessuno mi ha mai spiegato perché».

Oggi Gaetana è riuscita a rifarsi una vita. Ha un nuovo compagno e sta cercando di ripartire. «Ho pensato tante volte di aver sbagliato a denunciare. Mi sono resa conto di come all’improvviso ti ritrovi ad essere una cosa piccola a cui nessuno vuole vedere. Ho deciso di raccontare la mia storia perché situazioni del genere non devono più accadere. Sensibilizzare l’opinione pubblica non risolve il problema ma è importante». Oltre alla paura e all’isolamento, la donna  ha anche dovuto fare i conti contro chi l’accusava di essersela andata a cercare. «La gente non ha capito che la violenza non ha colore o nazionalità. È l’indole di alcuni uomini che io non riesco a definire tali. Anche molti nostri connazionali fanno queste cose, arrivando anche ad uccidere. Le diversità culturali – conclude – non c’entrano».

Pamela Giacomarro

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